C’è una casa, nel centro di Biella, da tutti conosciuta come “Villa Schneider”, attorno alla quale grava come un’aura di in dicibile. La gentilezza e l’eleganza del suo aspetto signorilmente liberty, la bella cancellata in ferro battuto, il giardino circostante ombreggiato da alberi frondosi, non valgono a dissipare nella memoria dei più anziani e nell’immaginario di chi ha sentito raccontare su di essa storie terribili, un’ombra sinistra, un’eco di sofferenze e depravazioni. Al pari di altre case degli orrori disseminate in molte delle città che conobbero l’occupazione nazifascista e la presenza di nuclei di repressione antipartigiana operanti ai confini tra una qualche forma di “legalità” e l’arbitrio sanguinario, tra obbedienza ai comandi e libertà d’azione indiscriminata, Villa Schneider fu il luogo dove si insediò un manipolo di Ss tedesche e italiane che si distinse drammaticamente per gli atti feroci commessi contro i parti- giani o la popolazione civile sospettata di fiancheggiare la lotta di resistenza.
[...] Il presidio della Villa Schneider era dunque un nucleo scelto che aveva compito di polizia politica e di lotta antipartigiana. Data la scarsità degli effettivi, il gruppo di Villa Schneider non di rado si avvaleva di elementi di altri reparti delle milizie repubblicane per portare a termine determinati compiti, ma la direzione delle operazioni disposte e organizzate a Villa Schneider spettava sempre ai militari dello stesso presidio. Il processo accertò la veridicità di molte
delle accuse rivolte ai componenti il presidio e la sentenza emessa il 10 ottobre 1946 condannò Cravero, Ronco, Beghetto e Ruggero a lunghe pene detentive e assolse
il solo Ravello, perché i reati che gli erano ascritti erano tutti compresi tra quelli per cui era stata concessa l’amnistia con il celebre decreto 22 giugno 1946. Dopo che fu parzialmente annullata la sentenza dalla Cassazione, ci fu un secondo processo, celebratosi tre anni dopo davanti alla Corte d’Assise di Torino, che confermò in buona misura il primo verdetto e si chiuse con la sentenza del 6 dicembre 1949. Le pene vennero in realtà scontate solo parzialmente:
grazie a indulti e riduzioni di pena intervenuti negli anni successivi, i responsabili tornarono in libertà nella prima metà degli anni cinquanta