Barbara Pareti

RONCO STORIES

Dedicato alle presenze che hanno animato la mia permanenza a Ronco Biellese.

1.

L’omino con l’ombrello ti guarda dritto negli occhi, e se cerchi di sfuggire il suo sguardo, ti viene vicino, saltella intorno a te come uno scoiattolo festante e reclama attenzioni, parole, gesti di umanità. Quel giorno quando scesi dall’auto, carica di pacchi e borse e telefonini squillanti e “Senti, ti richiamo dopo, ok?”, lui era lì, in piedi nella piazzetta del paese e mi osservava, incuriosito. Donna rossa giovane e appena arrivata, urge una conoscenza.
Gli lancio un’occhiata incerta, faccio finta di nulla, e dopo un attimo lui è già accanto a me.
“Vuoi una mano? Non lasciare la macchina aperta se vai via, hai lasciato il sedile alzato, guarda come si fa…” e, infilandosi nell’abitacolo, abbassa il sedile. Poi mi guarda, sorridendo soddisfatto. Operazione conclusa, sono stato bravo , vero? Ora tutto è a posto, tutto regolare, puoi andare, giovane donna. Il cavaliere errante ha provveduto ai tuoi bisogni, non temere, non ti farò nulla di male.
Io con un sorriso idiota stampato in faccia e il solito rossore che mi assale quando sono in preda all’imbarazzo delle situazioni impreviste, quelle che la vita è solita presentarti con nonchalance, tanto per metterti alla prova. E le braccia cariche di oggetti e accanto un uomo dai capelli bianchi e il volto vispo come un folletto, e nelle gambe la voglia di fuggire via e nel cuore il desiderio di un abbraccio sincero.
Ma poi niente di tutto ciò, un grazie e buona giornata, da brava bambina educata, e via, ognuno per la sua strada. Ossia, io a casa mia e lui in piedi sul selciato, ad attendere la prossima avventura.

2.

I cani del quartiere erano nervosi quella sera, forse già avvertivano l’arrivo della luna piena, oppure davano la caccia a qualche gatto temerario. Fatto sta che i loro ululati e l’abbaiare furioso mi impedivano di dormire. Decisi allora di alzarmi, di dare un’occhiata intorno. Mi vestii rapidamente ed uscii, nel cuore della notte, nemmeno un’anima in giro, solo le grida dei cani e il flebile scrosciare della fontanella. Passi, veloci, ritmati, infreddoliti, i miei in quella notte di dicembre illuminata da una luna imponente e misteriosa, quasi al culmine della sua bellezza, donna quasi madre ma già rigonfia, ridondante, piena di vita. Passo dopo passo giunsi a un cancello oltre il quale si vedevano ondeggiare lumini ardenti, lacrime disseccate, anime in cerca di requie. Non dovetti nemmeno forzare l’accesso, poichè il cancello era aperto. Non si temono i vandali in questo paese, si ha fiducia nel cuore del prossimo, oppure semplicemente il custode sbadato aveva dimenticato di chiudere la porta d’ingresso.
L’odore dei cimiteri mi ha sempre affascinato, quel misto di ceri e fiori ammuffiti e ossa a marcire piano, piano. Ed io, donna nel fiore degli anni a girovagare fra foto in bianco e nero, angeli dal capo reclinato a vegliare sulle misere spoglie di uomini e donne distesi a riposare, perduti nell’oblio che nessuno è mai tornato a raccontare. Amalia, Modesto, Serafino, Beata, mi siedo in mezzo a voi, amici miei defunti, fatemi un po’ di spazio, sono venuta a rallegrare un poco la vostra serata. E loro si stringono un po’, mi fanno posto, non hanno più il timore di perdere qualcosa nel concedere un piccolo spazio all’altro, non v’è ansia da possesso quaggiù, solo un suono aleggiante e persistente, di aliti a raffreddarsi piano, di inevitabile decadimento, di silente comprensione. “C’è troppa malinconia qui, ragazzi, è ora di fare festa, gioite, danzate, sono venuta per ballare con voi!” e prendo per mano i miei eterei compagni e mi metto danzare e a cantare e loro volteggiano con me, sopra di me, e in questo vortice vedo unirsi altre figurine sottili e azzurrine che, timidamente, osano avvicinarsi alla festa senza essere state invitate, tanto per dare una sbirciatina. Ed ecco che le luci delle candele si fanno più accese e i fiori riprendono colore e i marmi lucenti e le statue scintillanti paiono uscire da una sala imperiale, dalla festa da ballo dei pretendenti alla mano della principessa adolescente. E dai volti dei cari estinti non traspare altro che luminosa e pura armonia, e tutto è avvolto da una nebbia vellutata che mi accarezza il viso ad ogni giravolta. Al termine del ballo, esausta, mi stendo a terra e osservo le stelle e la luna sorniona e so che, un giorno, anch’io avrò il mio lembo di terreno in mezzo a loro, e, come loro, attenderò anch’io l’arrivo inaspettato di un’anima giocosa che alfine mi faccia danzare.
Così, saluto tutti e, in silenzio come sono arrivata, me ne torno nel mio letto ancora caldo e, sorridendo, mi accorgo che i cani hanno smesso di latrare.

3.

Il Chitarrista è un uomo che ha come amante e compagna la sua musica. Egli vive solo con il suo strumento e da esso trae ispirazione, conforto, allegria. Il Chitarrista ha l’animo trasparente e un poco inquieto tipico degli artisti, degli spiriti liberi, che vanno ovunque li porti la vita, sempre accompagnati dalla loro arte, unica costante. Il Chitarrista è il mio vicino di casa.
Poche parole, molti sguardi. Incontri fugaci, scambi epistolari, reciproca comprensione.
Una notte, tornando da una festa, stanca ed assonnata, lo udii, e il mio cuore fece un balzo, una piroetta, un inchino. Erano circa le due di notte e stavo salendo le scale quando udii una melodia in lontananza, un ritmo latino arpeggiato da mani esperte e amorevoli, mani capaci di esprimere l’armonia del vivere e del sentire con eccelsa professionalità.
Dapprima credetti fosse un disco, tanto era perfetta, ma poi mi resi conto che quella musica proveniva dall’appartamento del mio vicino, nottambulo in vena di creatività.
E mi fermai commossa ad ascoltare quei suoni limpidi e netti, quell’insieme di passione e dolcezza, una carezzevole ninnananna per il cuore di ogni donna o bambino che sappia ascoltare, che abbia ancora il desiderio di lasciarsi andare, di farsi cullare dall’universale ritmo vitale. Rimasi lì alcuni minuti, con gli occhi chiusi, e me lo immaginai, chino sulla sua chitarra, magari anch’egli con lo sguardo perso nei meandri del ricordo, a esprimere in note il suo amore per questa vita pulsante che ci scorre dentro, a volte furiosa, a volte tenera come una madre coi suoi piccoli. E, in cuor mio, ringraziai le mani e la corrente di vita di quell’uomo schivo ma sempre fischiettante, capace di tradurre in suono la vaga e persistente poesia che ognuno porta nell’anima.

4.

I giovani del paese hanno lo sguardo annoiato e di sfida tipico dei giovani di ogni città, di ogni parte del mondo, di ogni epoca.
Ti guardano di sfuggita gli abiti, le scarpe, il colore dei tuoi capelli poi tornano a ridere fra sè.
E tu, trentenne che vanti di dimostrarne molti meno, ti senti una nonna per loro, avverti già lo stacco generazionale, mentre in realtà vorresti ancora tingerti i capelli di viola e scrivere diari in cui confessare le paure e le ansie da crescita, quelle che non ti abbandonano mai, quelle che col tempo impari solo a controllare, gestire, tramutandole in piccole saggezze quotidiane.
Così li osservi sorridente e un poco timorosa, chiedendoti se ci sia ancora un modo per avvicinarsi a queste creature fragili e complesse senza sollevare polveroni, senza troppi scossoni. Ti domandi dove stia la zona franca nella quale ci si può incontrare, giovani e adulti, e nella quale ci si può parlare in assoluta armonia e schiettezza, senza pudori o rancori. E forse il modo c’è, e consiste nel mostrarsi come si è, senza ostentare a tutti i costi una onniscienza che non ci appartiene comunque. Perchè siamo tutti qui per imparare qualcosa, e anche loro, teste rasate o appuntite o multicolori, hanno qualcosa da insegnarci, ancora e ancora. E così li saluti “Ciao ragazzi” e accogli con benevolente nostalgia il loro “Buongiorno signora” che sai ti rivolgeranno.

Barbara Pareti