LA VALIGIA
La valigia era socchiusa e nessuno pareva prestarle la minima attenzione.
Quella mattina i viali del parco erano attraversati solo da cani in cerca di avventure e da uomini in giacca e cravatta dal passo frettoloso e dallo sguardo assente. Così, nessuno la vide.
Lo spazzino la notò, ma vi girò intorno, ramazzando i marciapiedi con la scopa di saggina ormai logora, nella quale si annidavano da anni insetti multicolori, foglie marcite, polvere e secoli di storia raggrumata. No, per quella valigia non vi era proprio tempo, e chinarsi per raccoglierla sarebbe stato uno sforzo troppo grande per le esili spalle dell’anziano “operatore ecologico”, come lo chiamavano da qualche tempo.
“Lasciamola lì, qualcuno se ne occuperà” pensò l’uomo, proseguendo e ramazzando, come sempre.
Il parco era uno di quei verdi nuclei di ossigeno che si possono trovare nelle grandi città, incastonati come uno smeraldo fra grigio cemento e bollente asfalto, una sorta di prezioso gioiello del quale si vorrebbe avere molta cura ma che spesso si finisce per trascurare o per considerare irrilevante per la propria esistenza. Qualcosa di difficile gestione per esseri umani dai rapidi mutamenti e dalle mode fuggevoli.
L’ultima trovata, per preservare il Parco Magno, come si chiamava, fu quella di far piantare ai bambini della scuola media un giovane ramoscello insignificante che un giorno sarebbe stato uno splendido ed imponente albero dalle possenti fronde sotto cui potersi riposare e rinfrescare nelle afose giornate cittadine, quando il caldo e l’oppressione sembrano comprimerti il cervello e toglierti la voglia di vivere, o di respirare, che poi è la stessa cosa. I bambini erano giunti, ognuno con il proprio rametto, portato con orgogliosa importanza, come se fosse stato il Santo Graal o la spada di Re Artù. I maestri li osservavano quasi divertiti e un poco commossi, pensando a quando anche loro si erano infervorati per delle questioni che ora parevano di poca importanza, per le utopie della giovinezza, svanite insieme alla voglia di giocare e di raccogliere more. E tuttavia, accompagnando questi giovani uomini, questi cuccioli dallo sguardo acceso e dalla curiosità impetuosa, era come ritornare per un attimo al passato, ai felici giorni in cui era possibile salire sugli alberi senza essere rimproverati e ai tempi in cui le cose parevano ancora seguire il ritmo della natura, ed era bello seguirne i passaggi cadenzati e quasi bucolici.
Ora, con il buco nell’ozono, la pioggia acida, l’inquinamento e tutto il resto, cosa ancora era rimasto di quel naturale rincorrersi di primavera ed estate, del risvegliarsi e gioire per poi ancora assopirsi per poi ridestarsi, rinnovo biologico ciclico, benefico, necessario.
Nessuno voleva pensare a queste faccende, non era moderno, e poi adesso c’è la tecnologia, il meccanico surrogato di emozioni, movimenti, situazioni. Basta un clic e sei in onda, sempre bello ed impeccabile, quasi immortale. E se desideri provare l’ebbrezza di attraversare il Grand Canyon o di nuotare nelle cristalline acque dell’Oceano Pacifico fra pesci e coralli, basta entrare nel magnifico mondo virtuale, a casa tua, comodamente seduto in poltrona. Perché faticare se puoi avere tutto a portata di mano? Questo è il moderno Paese dei Balocchi, e qui non c’è Mangiafuoco, niente può farti del male.
Eppure, quanto era bello guardare i visi eccitati ed accaldati di questi bambini con i loro teneri rami fra le dita e con l’infantile convinzione che ciò che si stava compiendo era un rito significativo, e duraturo.
Insomma, i ramoscelli erano stati piantati, erano col tempo cresciuti, la loro linfa aveva purificato l’aria viziata di città ed ora si veniva a sapere che bisognava tagliarne qualcuno perché erano troppi e potevano rappresentare un problema.
E d’altronde, se c’è gente che si lamenta perché non riesce più a parcheggiare nei viali a causa dei grossi tronchi ingombranti e se c’è chi dice che gli alberi in città servono solo per farci pisciare i cani, cosa si può ribattere? Si taglia, si elimina il problema, una volta per tutte.
Ecco dunque che nel parco Magno ora si potevano trovare alcuni alberi centenari accanto a giovani arbusti sempreverdi, intervallati da cespugli di rododendri e rose selvatiche, e ghiaia scricchiolante e fontanelle gorgoglianti, e una valigia azzurra.
In effetti, era alquanto strano vedere una valigia, di plastica azzurra, abbandonata accanto a un’aiuola di viole gialle, ma nell’insieme il colpo d’occhio era accettabile, perfino artistico.
Poteva sembrare fatto apposta per una foto d’autore, per uno scorcio cinematografico rappresentativo dell’umana desolazione fra lo sfacciato splendore della natura, con i suoi colori spesso eccessivi. E poi il proprietario della valigia poteva tornare da un momento all’altro a riprenderla, stupito della propria dimenticanza della quale avrebbe sicuramente parlato all’analista per indagarne i reconditi significati.
E tuttavia, la valigia rimase lì, immobile e silente, per molti giorni.
I curiosi si avvicinavano, con fare circospetto, la osservavano da ogni angolatura, vi giravano intorno, facevano congetture su cosa contenesse o a chi appartenesse, ma non osavano toccarla, anche per timore dei microbi o di qualche oscura malattia.
I più audaci si chinavano, la rigiravano e cercavano di aprirla, sfruttando lo spiraglio all’interno del quale non si scorgeva altro che buio, fitto ed inquietante.
Ma nessuno era mai riuscito nell’intento, e c’era anche il rischio che contenesse un ordigno, e allora ci sarebbe stato davvero da preoccuparsi. E in effetti vennero gli artificieri che la esaminarono, la ispezionarono nei minimi dettagli, la auscultarono per avvertire il più piccolo fruscio e quando si resero conto che quella piccola valigia azzurra non conteneva proprio nulla di cui temere, se ne andarono, lasciandola lì dove l’avevano trovata.
E le stagioni mutarono, e al posto delle viole vi era ora un rigido terreno ghiacciato, una lieve coltre di neve e alcuni brandelli di giornale portati dal vento. E ancora la valigia era lì, socchiusa e azzurra, solo un poco più sbiadita ed impolverata, con un alone giallastro ai lati, segno che anche i cani si erano accorti della sua presenza.
Finché un giorno qualcuno venne e cambiò l’andamento delle cose.
L’uomo era un noto studioso, un filosofo forse, una persona che aveva dedicato la propria esistenza alla riflessione, all’analisi di fatti e fenomeni, un personaggio un po’ bizzarro e misterioso, dalle affascinanti capacità oratorie. Era giunto in quella città per partecipare ad una conferenza e, come suo solito, stava camminando per le vie in cerca di ispirazione, quando vide il cancello del parco Magno. Vi entrò, colto da improvviso rapimento. Percorse con passo svelto i viali, come in cerca di qualcosa. E finalmente la vide.
Era lì, accoccolata ai piedi di un albero intirizzito, accanto a un tappo di bottiglia arrugginito, silenziosa, ferma, inspiegabile. Pareva che qualcuno nei tempi andati si fosse preso cura di lei, che avesse cercato di indagare i motivi, lo scopo della sua presenza, se ci fosse un enigma da scoprire per giustificare la sua improvvisa comparsa in quel luogo, pareva che lo spiraglio che presentava fosse stato preso in considerazione, che si fosse cercato di introdursi al suo interno, per ottenere una risposta, per capire.
Ma la scarsa esperienza ed il superficiale interesse avevano fatto sì che ogni tentativo fosse miseramente fallito, sostituito da sprezzante disgusto per una cosa tanto ridicola, inutile e volgare quale una valigia azzurra abbandonata ai bordi di un viale.
E fu allora che l’uomo comprese di aver infine trovato l’umana Coscienza.
Barbara Pareti