Maria Teresa MolinerisRACCONTI ghi

Giubileo. Nei ricordi biellesi

L’Istituto “San Vincenzo” di Tortona era un grande complesso scolastico di considerevole livello, con tutte le scuole: dalle Elementari alle Medie, alle Magistrali. 1949-50. Era gestito dalle suore di Santa Giovanna Antida Thouret, le “suore cappellone”, come erano anche chiamate per quella loro divisa così complessa e imponente. Erano tutte laureate o diplomate. Insegnavano in collaborazione con insegnanti laici. Un Istituto all’avanguardia, con annesso collegio per le “educande”. Allora si diceva così. Era diretto da una suora di eccezionale competenza e bontà: Suor Eleonora. Gli assistenti spirituali erano ottimi sacerdoti: don Carlo Ferrari, raffinatissimo conoscitore d’arte, divenuto poi vescovo di Monopoli e di Mantova, padre sinodale al Concilio Vaticano II; don Aldo Del Monte, scrittore, divenuto poi Vescovo di Novara; don Ezio Cerruti, che allora si occupava , con la nostra prof. suor Agostina, di musica e canti.
Già in quegli anni si facevano conferenze con personalità celebri in diversi settori, come quello artistico, ad esempio; e conferenze e incontri sul “disagio dei giovani” e i loro problemi. Si eseguivano e si seguivano all’esterno spettacoli teatrali, ginnici, musicali .
In una lontanissima serata aveva diretto in Duomo l’oratorio “Il Natale del Signore” , l’ormai anzianissimo , ma sempre sublime, Lorenzo Perosi, con cantanti e musicisti della Scala di Milano.
Si studiava, con la malinconia di casa nel cuore, in un ambiente lieto, ma abbastanza severo. L’insegnante di francese, ad esempio, una nobile che era diventata suora, ci faceva passare davanti alla cattedra facendo un saluto in francese, con un breve inchino.
Un giorno la grande notizia: l’Anno Santo, 1950, il primo dopo la tragica II Guerra Mondiale. Il primo, ricordano gli storici, con “il movimento di massa”.
E fu così. Biella allora aveva due stazioni ferroviarie: Biella San Paolo con all’ingresso della piazza le due colonne sormontate dalle aquile che ora si trovano davanti allo Stadio, e Biella Centrale , che sorgeva dove ora si trova l’Esselunga.
C’era ancora il trenino per Oropa con la stazione di cui ora è rimasto soltanto l’edificio dell’Ente Turismo. Cominciava però il trasporto su gomma, gli autobus, cioè le corriere, che pian piano avrebbero sostituito tutti i trenini: per Oropa, per Vallemosso, per Andorno e la Balma, per Mongrando.
E anche il trasporto “su gomma” imperò nel tortonese. All’istituto San Vincenzo fu un fervore di iniziative per l’Anno Santo. Tutto l’Istituto si mobilitò per raggiungere Roma, lucrare la grande indulgenza del Giubileo, visitando le quattro basiliche di rito: San Pietro, San Paolo, Santa Maria Maggiore, e San Giovanni in Laterano.
L’attesa era però per la Basilica di San Pietro, dove si trova la tomba dell’Apostolo , primo successore di Gesù, la “pietra” su cui Gesù aveva fondato la sua Chiesa. E soprattutto avremmo visto il Papa, Pio XII.
Allora era tutto grande, tutto importante, tutto solenne. L’autorità era “autorità”, il “Papa” era intoccabile, inavvicinabile. Una schiera di coloratissimi e serissimi gendarmi , le guardie svizzere , proteggeva con lui, tutti gli ingressi alla stanze del Palazzo Apostolico in cui lui risiedeva.
Roma allora era una meta quale oggi potrebbe essere considerata, ancora per molti, l’America, New York, o il Giappone. Nei viaggi di nozze non si faceva ad esempio il giro del mondo, Roma era il massimo dei desideri. Molti si dovevano accontentare di un bel viaggio..a Stresa. E Parigi? Era il più acceso e audace dei sogni. Andare in Germania poi significava fare un viaggio molto lungo , anche difficile per via dei trascorsi bellici con l’Italia. Esclusa poi in assoluto la Germania dell’Est. Ma quanti potevano muoversi così?
Auto rarissime, soltanto per ricchi signori e imprenditori. La ferrovia Biella San Paolo- Novara, detta “degli industriali” viaggiava ancora con poderose e sbuffanti locomotive a carbone. I primi autobus erano grosse corriere che si inerpicavano verso Oropa e i paesi, facendo anche il sevizio postale. Molto più tardi, quando un po’ per volta e, in tratti diversi, arrivavano nei paesi, i nuovi pullman venivano accolti con tanto di Sindaco, nastro tricolore da tagliare, benedizione del Parroco, autorità e festa generale.
Cominciava così l’era moderna che avrebbe costruito treni velocissimi, jet, razzi , lem e droni , satelliti che avrebbero spinto l’uomo fin sulla luna.
A Tortona gli autobus che avrebbero dovuto portare quasi l’intero Istituto San Vincenzo a Roma per l’Anno Santo, erano tre. Gli autisti ancora con la divisa. In qualche caso anche i famosi “strapuntini”, i sedili in più che potevano essere collocati nella corsia centrale del mezzo. L’eccitazione per quello che si preannunciava come un evento era stata grandissima. Erano stati provati e riprovati canti, fatte preghiere, ricevute raccomandazioni. Anche con noi, che eravamo “le piccole”, c’erano le nostre insegnanti. Personalmente avevo ricevuto da mia mamma, che da ragazza aveva viaggiato molto e amava l’arte, le prime informazioni su Roma e le sue bellezze artistiche. Non so per quale arcana ragione però volevo vedere in particolar modo il famoso “Colonnato del Bernini” che racchiude come in un abbraccio Piazza San Pietro.
La partenza era stata eccitante: all’alba, dall’antica piazza tortonese di Palazzo Guidobono. Noi, i nostri sacchi, compresi i cestini da viaggio, i saluti dei genitori e i canti cominciati a gran voce . Erano venuti a sottolineare l’importanze dell’evento, anche “quelli della Radio” e avevano registrato i nostri cori, che i miei genitori avevano sentito anche in paese, a Zubiena.
Il Passo della Cisa, Radicofani con l’imponente castello, e poi giù verso Roma. Quale dovesse sembrarci allora “la Capitale”, è difficile da descrivere. L’emozione più grande era vedere da vicino e toccare con mano quanto avevamo conosciuto con serietà e severità dai libri di Storia. Roma era …ROMA!
Fuggono dalla mente tutti gli altri particolari, compresi gli Istituti in cui eravamo ospitati. Alla mia mente si affaccia soltanto la presenza in Piazza San Pietro. Il Colonnato finalmente, bello come mi era stato descritto e l’avevo immaginato. La piazza enorme, magnifica, solenne, con quel lungo cammino per arrivare alla porta della Basilica, che non finiva mai. “E’ tutto così perfetto che non percepisci esattamente l’effettiva distanza”, mi avevano detto. E così era stato. La basilica mi era sembrata enorme, tanto solenne e grandiosa da intimorire. Era gremita di gente all’inverosimile.
Era solenne anche la musica, come lo erano i canti che precedevano l’arrivo del Papa. L’attesa era stata lunga ed emozionante. Poi la cerimonia, la Messa , la preghiera solenne, la benedizione.
Ed ecco il Papa infine, che tornava dall’altare per il saluto ai fedeli: Pio XII, il principe Pacelli. Avanzava sulla sedia gestatoria, che procedeva lentamente, portata in spalle da numerosi e robusti portatori. Noi eravamo tutti assiepati presso le lunghe transenne che segnavano quello che sarebbe stato il suo percorso. Il Papa vestiva paramenti liturgici riccamente ornati di ricami preziosi. Aveva in capo la tiara. Accanto a lui reggevano il flabello. Avanzava benedicente tra la folla che pregava e applaudiva . Ieratico, pareva una statua . Il volto esile, scavato, i grandi occhiali. Le mani scarne, levate in un gesto di benedizione. Appena un sorriso. Don Carlo Ferrari,il nostro cappellano , quello “delle piccole”, a un certo punto mi sollevò in alto perché potessi vederlo meglio.
Poi la processione, che doveva concludere la Messa solenne celebrata all’altare centrale della Basilica, sulla tomba di San Pietro, si dileguò tra la folla immensa che si accalcava nella chiesa.
Il ricordo si ferma qui. Il passaggio attraverso la Porta Santa con in cuore la certezza del “perdono” la remissione totale del debito accumulato con le colpe. La commozione di fronte ad un evento che , quando ancora la televisione, che oggi diffonde le immagini da una parte all’altra parte del mondo, e perfino dalle stelle e dai pianeti dell’universo, non c’era, lasciava quasi stordito il cuore.
La basilica di San Pietro, che “avrebbe potuto contenere tutte le altre chiese del mondo” il cui perimetro era segnato sul pavimento; la sua enorme cupola che pareva riversarsi sul Baldacchino del Bernini come una grande stella; le statue bellissime e la celebre Gloria del Bernini , in cui si elevavano le immagini dei Santi quando venivano canonizzati , con la grande sedia (che a me pareva bruttissima) e simboleggiava la Cattedra di San Pietro. Le avrei riviste, e anche studiate nel tempo. Mi sarebbero rimaste nel cuore.
Ci fu poi la vista di rito alle basiliche indicate: la monumentale e gelida San Giovanni in Laterano, antica sede del Papato; l’affascinante Santa Maria Maggiore con la bellissima scalinata che fascia la parte absidale e all’interno la miracolosa effige della Madonna della Neve, e i ricchi mosaici.
Solo molti anni più tardi avrei scoperto che in quella chiesa, sotto un semplice gradino di marmo della balaustra dell’altare maggiore su cui è inciso soltanto il nome , si trovava la tomba del mio grande ammiratissimo Bernini , signore del barocco della Città di Roma.
La basilica di San Paolo, quindi, grandissima, a cinque navate, con più colonne di un bosco, e il magnifico Cristo benedicente che occupa tutto il catino dell’abside e ha ai suoi piedi, piccolissima, l’immagine del Papa che aveva voluto il mosaico. E soprattutto la tomba dell’apostolo San Paolo.
Avevamo visitato anche le Catacombe, alla fine, non senza un po’ di paura per il grande buio e il silenzio in cui si affacciavano le tombe vuote. Ricordo con quanta fede, molto nascostamente avevo portato via un pizzico di quella terra scura che aveva ospitato i martiri, ricordando che un giorno, all’interno della croce di qualche antico rosario della mia casa avevo visto, collocato come una reliquia, un filo di terra “ex catacumbis”.
Avevamo poi visitato tante altre famose bellezze di Roma, fra cui la strepitosa Fontana di Trevi in cui avevamo gettato la classica monetina che “avrebbe garantito un prossimo ritorno”. Il resto del viaggio si perde nei ricordi. Avevamo visto Firenze, forse, dall’alto di Piazzale Michelangelo. L’emozione del Giubileo però a questo punto era accompagnata dalle risate e dai canti, immancabili, che si mescolavano al rumore dei pullman sulla strada e che, come avviene anche ora, disperdono nel tempo l’allegria irrefrenabile degli anni giovanili.

Maria Teresa Molineris