Ernesto Gastaldi

Baghdad fuma a colori

Dall’immenso campo di rovine si levano vapori arancioni variegati di volute nere. Nell’aria un odore acuto di arrosto e forse non sono solo carni animali quelle che bruciano.
Alcuni drappelli della centounesima avanzano con formazione a testuggine, resi alieni dalle maschere antigas, mitra e lanciarazzi in pugno.
Fan paura, sembra l’invasione dei marziani raccontata da Wells. Sparano a tutto ciò che si muove ma da dieci minuti non hanno più bersagli.
Hanno già ucciso tre Saddam Hussein. Sosia probabilmente, ma è difficile stabilirlo prima di sparare. Meglio indagare dopo, sui cadaveri.

L’ufficiale che comanda il drappello più avanzato è in continuo contatto radio col comando: pare che i Saddam Hussein uccisi ammontino già a ventiquattro. Dopo tutto un iracheno coi baffi è poco distinguibile da un altro iracheno coi baffi.
Una bandiera bianca, che viene sventolata da dietro uno scoglio di pietre e mattoni sormontati da una grande inferriata di ferro parzialmente fuso dalle bombe, attira l’attenzione dei soldati. L’ufficiale alza la mano in segno di stop.

Stanchi, sporchi, coperti di polvere, con le maschere a gas semintasate, i liberatori si bloccano sollevando le canne delle armi contro le rovine.
Ormai non sperano più in folle festose che buttano loro fiori, anzi non sperano più di vedere delle folle. La distruzione di Baghdad purtroppo ha dovuto essere quasi completa. Colpa di quell’assassino di Saddam.

Il Presidente Bush dovendo scegliere fra i cittadini di Baghdad e i suoi marines non ha potuto esitare troppo: poiché i fanatici della Guardia Repubblicana irachena si erano sistemati nelle case della città e sparavano dalle finestre, che altro fare se non spianare la città?
Colpa di quell’assassino di Saddam e se sarà preso vivo dovrà rispondere anche di questo al Tribunale Internazionale, quello che non potrà mai giudicare ufficiali americani.

La bandiera bianca viene sventolata con più forza e spunta anche il braccio di chi la regge.
Swamp!
Una lingua di fuoco, come quella dei draghi, parte da uno dei lanciafiamme in dotazione ai Corpi Speciali e lo straccio bianco brucia. Anche la mano di chi lo sventolava a giudicare dalle bestemmie arabe che deve sopportare Allah.

L’ufficiale, madido di sudore, fa un altro cenno di stop e si leva la maschera antigas con rabbia. Aspira il fumo e l’odore di arrosto. Non sembra esserci niente di chimico nell’aria, niente di nocivo, solo puzza di cadaveri bruciati. Fortuna che hanno spianato la città prima che quell’assassino di Saddam potesse uare le sue armi di distruzione di massa.
Tutto il drappello si smaschera e appaiono le faccette stralunate, pallide e sudate di ragazzini di vent’anni, con negli occhi ancora il rosso delle pianure dell’Arizona o i mari di grano del Kansas. Senza le maschere da marziani, i soldati sono tornati uomini.

L’ufficiale consulta una mappa di Baghdad: quello è il fiume, là c’è l’ansa grande, dove c’erano i ministeri, di là dovevano esserci gli alberghi. Da questa parte c’era il mercato e il quartiere popolare. Gira la mappa un paio di volte per orizzontarsi: se tutto quadra allora quel muraglione smozzicato, sormontato dalla grande inferriata, doveva essere la prigione. Allora forse la bandiera bianca stavolta è davvero un segno di resa.

L’ufficiale, reso cauto dalle trappole tese nel deserto dove la Guardia Repubblicana dell’assassino Saddam sventolava bandiere bianche e poi sparava a tradimento, fa cenno a due dei suoi di andare a vedere. Il soldatino con gli occhi blu scambia un’occhiata col suo compagno di pelle nera: colori diversi ma la paura di entrambi e blu. Sono soldati però a duemila dollari al mese e obbediscono. Avanzano, mitra spianato verso il rudere, da cui fanno capolino tre ragazzi arabi, di qualche anno più giovani di loro.
Uno dei ragazzi urla:
– Jail! Jail!- e fa cenno a tutto intorno.
I due soldatini americani si fermano e ordinano ai tre di venir fuori con le mani in alto. Obbediscono, ma dietro ai tre, altri tre, e poi una fila di
uomini seminudi e magri da far paura. Sono i prigionieri del regime di quell’assassino di Saddam.
L’ufficiale si mette subito in contatto col comando e arriva in elicottero una troupe televisiva, così il mondo vedrà quanto il dittatore sia spietato.

Il gruppetto sparuto, sporco, assetato e morto di fame tende le mani per avere qualcosa da bere e da mangiare ma l’ufficiale ferma i soldati che stanno mettendo mano alle loro razioni: meglio farlo davanti alla TV, così miliardi di persone vedranno come i marines sono buoni e caritatevoli verso gli oppresssi.
Pochi minuti dopo, ecco l’elicottero e finalmente, davanti alle telecamere, i prigionieri di quel barbaro Saddam possono essere rifocillati. Uno dei ragazzi arabi fa cenno che sottoterra ce ne sono altri.
Seguiti dalle telecamere il drappello di marines, comandato all’ufficiale, scavalca le rovine e i giornalisti filmano badando di non inquadrare i brandelli di corpi che spuntano qua e là fra le macerie della prigione.
I sotterranei del carcere sono stati sventrati dalle bombe e ci sono dei cadaveri bruciati ancora aggrappati ai cancelli delle loro celle.
L’ufficiale fa cenno ai giornalisti di non inquadrare quell’orrore e si affretta verso il fondo da dove viene un lamento e un’invocazione.

La troupe televisiva accende i flash a batteria e ruota per illuminare l’interno di quella cella che ha il cancello disarticolato.
Dentro, la sagoma di un uomo ferito alle gambe che si porta una mano davanti agli occhi per non essere accecato dalla luce improvvisa. I flash illuminano quelle gambe insanguinate, su fino a quella mano dietro cui una voce rauca sta mormorando:
– Allah u ackbar-

Lentamente la mano cala e il volto si mostra: due sopraciglia ingrigite, cespugliose, due occhi nerissimi affogati in borse di pelle rugosa, un naso forte, un paio di baffi sporchi e grigi che nascondono una bocca crudele.
ZOOM.
– Goddam, Saddam!-

L’urlo dell’ufficiale fa strabuzzare gli occhi a tutti, soldati e giornalisti. Ognuno vuol vedere, e si affollano, senza più alcuna cautela davanti alla cella.
Saddam è felice e si tocca il petto, le labbra e la fronte e benedice. Poi parla inglese, un buon inglese fluente, con un lieve accento esotico che gli
dà una sfumatura sexy.
Dice:
– Finalmente siete arrivati! Miei amici, miei grandi alleati, miei finanziatori, miei liberatori, miei fratelli! Sono quindici anni che vivo qui dentro, imprigionato dai miei sosia che si sono messi in combutta coi miei figli! E quando han visto che tutto era perduto sono scesi e mi hanno sparato attraverso le sbarre. Tu quoque Brute eccetera… ho finto di essere morto! Ma ditemi, ditemi che è successo in questi 15 anni in cui sono stato chiuso qui dentro?

Ernesto Gastaldi

Ernesto Gastaldi, nato a Graglia nel 1943, è uno dei più importanti sceneggiatori cinematografici italiani.
e una sua curiosa, recente, intervista è presente in http://www.horrorcult.com/Speciali/Interviste/ernesto_gastaldi.asp

Tra i suo lavori troviamo anche:
C’era una volta… America (USA – 1984)
regia Sergio Leone – Cast: Robert DeNiro

Sodoma e Gomorra (USA – 1963)
regia di Robert Aldrich

Il mio nome Nessuno (ITA – 1973)
regia di Tonino Valerii – Cast: Henry Fonda, Terence Hill

La pupa del gangster (ITA – 1974)
regia di Giorgio Capitani – Cast: Sofia Loren, Marcello Mastroianni

Un genio, due compari, un pollo (ITA -1975)
Regia di Damiano Damiani – Cast: Terence Hill

Mi faccio la barca (ITA – 1980)
Regia di Sergio Corbucci – Cast:Laura Antonelli, Johnny Dorelli