MORTE APPARENTE
Era lì davanti a me con l’aria di chi volesse interrogarmi. La mia, era, una comune panchina dei giardini pubblici, di metallo, verde, fredda e dura. Lì seduto ogni giorno aspettavo l’autobus, ma non uno in particolare, li aspettavo tutti. Poi, quando anche l’ultimo cassone, giallo o blu che fosse, ciondolante e sbuffante, spariva nella notte, mi preparavo per dormire. Quel giorno ero preda di una strana sensazione. A volte non so più se è mattina o pomeriggio, allora mi obbligo a fermare caotici pensieri per far mente locale e capire quale momento della giornata sto vivendo. Credo fosse mattino, perché la panchina dove passavo le mie giornate e, d’estate anche la notte, è rivolta al tramonto e in quel momento potevo fissare il ragazzo negli occhi senza che il sole mi desse fastidio. Gli occhi erano azzurri, le sopracciglia sottili e delicate come i tratti del volto, nere come i suoi capelli. Avevo davanti questa figura dinoccolata, trasandata come la mia storia, con la mano tesa a chiedermi qualcosa. Qualcosa a me, a me che non avevo. Non potevo nemmeno dargli un ricordo, né un futuro. Negli ultimi tempi, i miei ricordi non andavano più indietro di un giorno e, il mio futuro mai più avanti di un paio di minuti. Possedevo solo due bignè, presi in un bar. So che mi fanno male ma ho un rapporto morboso con i dolci, li devo rubare. Non provo nessuna colpa nel compiere questo gesto perché ci sono costretto. Forse però, una cosa la potevo dare, forse potevo fargli capire che non doveva diventare uno schiodato, solo, come me. Allora decisi di provarci. Lo fissai e con lo sguardo cercavo di trasmettergli calore, amore, tenerezza. Lui sembrava non vedermi nemmeno. Capii subito che la causa era una donna, come lo era stata per me. Poi l’insofferenza alle cose quotidiane, la perdita degli amici, l’alcool ed ora lì, il parco. Fra bimbi scorrazzanti, mamme e carrozzine cigolanti, nessuno si accorgeva di te, non più di tanto, se non per allontanarsi, ognuno nella propria indifferenza, ben attenti a non impegnarsi troppo in qualche “Serve qualcosa?” “Si sente bene?” “Come va?” “Ehilà”. Improvvisamente, puntandogli il dito contro, gli chiesi “Che cosa stai facendo?” “ Perché sei qui?”. Lui ingigantendo gli occhi e inspirando profondamente quasi si scusò, ma non capii le sue parole perché farfugliò più che dire. “Accidenti ragazzo ma non la vedi la fine che stai facendo? Guardami” Nulla. ” Non rimanere lì a fissarmi come se vedessi il nulla. Guardami” Niente. “Dai, scuotiti! Senti, ti do questo ……” Annaspando cerco nella tasca, la mia mano incontra pezzi di tabacco e grumi di polvere mescolati con fili di tessuto. “Ecco tieni” Tiro fuori un biglietto malconcio ed unto. “Ecco! Qui è scritto dove ti possono aiutare, vai ragazzo non restare qui nel parco”. Niente, non si muove, prende e rimette il biglietto in tasca. I nostri sguardi si toccano, un brivido, i suoi occhi riflettono i miei. Guardo la quercia antica alle mie spalle, la guardo perché m’infonda calma. Raccolgo una pietra e gliela scaglio contro, lo colpisco lì, ad una gamba. Lui, si scansa appena toccandosi con le lunghe dita il polpaccio dolorante. “Vecchio bastardo” gli sento dire. Finalmente. Il vento si è alzato e le fronde della quercia si agitano. Nubi. Le sue movenze mi convincono che l’alcool non gli basta più. Mi alzo, mi avvicino minaccioso, le narici dilatate. Lui non si muove, rimane li, mi aspetta in un vacuo sorriso che scopre denti già ingialliti dal fumo. L’odore della terra mi annuncia che sta per piovere, stanotte dovrò cercare un buco alla stazione.Mi fermo vicinissimo a lui, le mani tremanti, ho un’idea, per mandarlo via per farlo sparire, per non vederlo più. Spero che i cessi alla stazione non siano intasati, non sopporto la puzza di latrina, non
riesco a dormire. Devo stare attento ai movimenti, fare in modo che non si accorga di nulla. Ho un vantaggio su di lui, non conosce le mie intenzioni. Se i carabinieri faranno una retata, magari, invece che alla stazione dormo in cella. La mia mano ritorna nella lurida tasca. Fruga. Trova il metallo.Stringo la lametta fra le dita. Se finisco in cella, spero d’essere solo, l’ultima volta con me c’era un pederasta. Sono vicinissimo al ragazzo. E se finissi in cella con un maniaco? Era già successo ad un ubriaco l’anno scorso e il malcapitato aveva fatto una brutta fine, il maniaco l’aveva fatto a pezzi, il più grosso come una fetta di mela. Può sentire il mio alito sul collo. Il cielo è di ghisa. Lui è sempre fermo ad aspettare. Secondo me ha capito. Piove. Non voglio andare alla stazione, non voglio andare in cella. La mia mano scatta, colpisce. La lametta taglia, incide la pelle, la trova più molle del previsto, un fiotto di sangue dal collo corre giù per la manica, m’imbratta il già lurido impermeabile, scivola a terra unendosi alla pioggia in un rigagnolo rosso scuro. Non sento dolore, la vita mi lascia senza farmi male, male come ha fatto finora. Ho appena la forza di stendermi sulla panchina, nel parco, solo, come sempre. Il mio pensiero si spegne. I miei occhi azzurri si chiudono. I miei capelli corvini si adagiano su di un cuscino di carta impiastricciato da colla di pino e cronaca nera. Ho seguito il tuo consiglio, vecchio balordo, sto andando in un posto dove forse troverò pace e comprensione. Gli autobus continuano a passare con il loro carico ciondolante e sbuffante, le carrozzine con le mamme se n’erano già andate al primo accenno di pioggia. “Quello era matto!” “ Parlava sempre da solo” “ Oggi poi gesticolava, urlava, come se stesse litigando con qualcuno.” “ Forse stava bisticciando con la morte”. La gente che passeggiava nel parco aveva di che chiacchierare. La quercia umida e smarrita era sempre là. Quanto tempo era trascorso? Le gocce mi bagnano la bocca, la saliva fatica ad inumidirmi la gola. Per aprirsi gli occhi sollevano un macigno. Il battere meccanico dei secondi dell’orologio appeso alla parete ha perso ogni senso, il crocifisso di fronte mi fa capire che non mi trovo in paradiso. Il cervello schizza sbattendo da un lato all’altro della testa, i pensieri si mescolano, strepitano, s’accavallano, poi uno spillo mi trafora il cranio ed è il silenzio, la pace, ricado in coma. “Ce la farà, è una pellaccia” L’anziano dottore che mi stava bagnando le labbra, era fiducioso. Una giovane donna, dentro ad un elegante “tailleur” color panna, era lì in piedi, che aspettava questa notizia. “Per fortuna gli hanno trovato in tasca quel biglietto con l’indirizzo e ci hanno chiamato subito – disse – la nostra associazione ha uno schedario di quasi tutti i senza casa della città, che elenca le loro abitudini, le eventuali droghe assunte e tutti i dati medici possibili”. “E’ stata una fortuna per lui – riprese il medico – altrimenti, non avremmo saputo che era diabetico e probabilmente l’avremmo ucciso anche noi, anziché salvarlo”. Era la prima Domenica d’aprile, tre giorni esatti dal mio ricovero. Il terzo giorno da quel mattino in cui si era materializzata davanti a me l’immagine di quand’ero ragazzo. In quel preciso momento ho visto le mie delusioni, le amarezze, le scelte sbagliate, il tunnel in fondo al pozzo in cui ero caduto. Non ho avuto scampo. L’ospedale si trovava di fronte al parco. In una delle sue asettiche stanze, il sole lambisce discreto i piedi del letto. Io, steso, inclinato su quel giaciglio, collegato con variopinti fili a scatole metalliche, respiro a fatica. Tra i tubicini trasparenti e le altane con i flebo riesco ad intravedere, di là della strada, il viale con la mia panchina e la quercia. Non so se ci tornerò più.
Maurizio Di Dio Busa