Desideriamo anzitutto precisare che la scelta di differenziare – parlando di cavalleria – un ambito leggendario da uno storico, è unicamente relativa al diverso contenuto che questi due sistemi di trasmissione offrono, e non certo al fatto che alcuni eventi del passato risultano maggiormente circostanziati dal punto di vista temporale e geografico (e sono pertanto definiti “storici”), mentre per altri questa possibilità di definizione risulta ardua, controversa o addirittura impossibile.
Nell’ottica che desideriamo qui assumere e seguire – che è quella dei contenuti – è infatti assolutamente irrilevante determinare se e quando un sovrano di nome Arthur abbia regnato su qualche regione della Bretagna o della Cornovaglia, o se esistono le prove che durante la battaglia di Roncisvalle un paladino di nome Roland abbia sterminato da solo migliaia di infedeli con la sua spada Durlindana. Forse il sapere che nell’anno 50 o 85 a. C. “realmente” un giovane abbandonò la sua famiglia e poi, dopo aver dilapidato tutte le sue sostanze vi fece ritorno, accolto con ogni onore, darebbe più valore alla parabola del figliol prodigo?
E dunque, così come lasciamo alle opposte tifoserie le diatribe partigiane sulla realtà storica di Gesù, del Buddha Sakyamuni o del re Salomone, e preferiamo invece occuparci del valore reale e dei contenuti della loro presenza (sia essa storica o simbolica), allo stesso modo riteniamo abbia ben poca rilevanza, in termini di conoscenza e di ricerca interiore, arrivare a determinare se la tavola rotonda esposta nel castello di Winchester sia o meno quella attorno a cui sedettero, insieme con Artù, Lancillotto, Parsifal, Galvano e gli altri suoi fedeli cavalieri.
Al contrario, è proprio la materia meno “garantita”, appunto quella popolare e letteraria, che spesso risulta più preziosa ai fini di un approccio di conoscenza, in quanto più libera di spaziare nella metafora e nel simbolo, e quindi maggiormente aderente alla Tradizione.
È infatti la tradizione più antica quella che riprendono i romanzi del ciclo della Tavola Rotonda, nel trasporre i simboli della mitologia celtica e nordica in una chiave più adatta alla nuova cultura cristiana. In un ideale passaggio iniziatico, le canzoni dei bardi vengono trasmesse ai trovatori medievali, e questi, con una vera e propria opera di traduzione culturale, ne ripropongono i contenuti attraverso i racconti che costituiranno la cosiddetta “materia di Bretagna”, base e cuore dei più famosi romanzi cavallereschi.
Va ricordato, per meglio comprendere il senso reale di questa ideale trasmissione di conoscenze, che gli antichi druidi erano insieme sacerdoti e poeti. La poesia, la canzone, il poema e il racconto, dunque, non erano certo per questi maghi-cantori semplici strumenti di svago o espressione accademica di abilità letteraria, ma strumenti fondamentali di insegnamento e di trasmissione, attraverso i quali rendere comprensibili (pur se in forma analogica e metaforica) i contenuti sapienziali che custodivano.
L’eredità raccolta da Chretien de Troyes, Geoffrey de Monmouth, Robert de Boron e Wolfram von Escenbach, autori fra il XII e il XIII secolo dei più importanti romanzi del cosiddetto “ciclo arturiano”, non rappresenta perciò che un’opera di sistematizzazione letteraria di una materia preesistente e frammentaria, trasmessa oralmente e preservata solo al prezzo degli innumerevoli adattamenti locali e personali che il veicolo popolare aveva imposto.
Perché meravigliarsi, allora, se il quadro globale risulta incompleto o addirittura contraddittorio, se il numero dei cavalieri della Tavola Rotonda oscilla da otto a cento, se in alcune narrazioni la magica Excalibur è consegnata al giovane re da Merlino o dalla Signora del Lago, anziché essere estratta miracolosamente da una roccia?
Non è forse meglio tornare all’origine della narrazione, e disporsi idealmente intorno a un fuoco, ad ascoltare un vecchio mago che canta le gesta degli antichi dei e degli eroi che ne hanno attuato il volere sulla terra, mentre il sidro scorre dolce nella gola e le parole scendono dirette nell’anima passando per la porta del sentimento e dell’emozione?
Perché proprio questo è il ruolo e insieme il valore della leggenda. Ogni storia, ogni racconto va ascoltato e fruito solo per se stesso, lasciando che il suo contenuto simbolico entri a contatto con le strutture conoscitive più profonde. La verità è un puzzle che ciascuno può costruire individuando identità e analogie in interiore, più che lavorando sulle fonti.
In questo modo le antiche leggende tornano a parlare e svelano i loro segreti. In questo modo re, maghi e cavalieri si fanno maestri. E passato e presente sono annullati nell’unico tempo della Tradizione.
Crediamo che le vicende che ruotano intorno alla figura di re Arthur, dei suoi cavalieri e della sua corte siano troppo note e troppo ricche nella varietà perché sia possibile riassumerne i contenuti senza, in questo modo, sminuirne il valore.
Preferiamo allora qui, piuttosto, indicare quale, a nostro parere, sia il modo corretto di accostarsi a una materia che è tanto vasta quanto difficile da circoscrivere entro schemi rigidi e tavole sinottiche. E lo facciamo evidenziando alcune caratteristiche che differenziano la cavalleria “leggendaria” – delineata nel ciclo arturiano – da quella che possiamo invece definire “storica”, propria degli ordini medievali.
Cominciamo dunque col notare che mentre per il cavaliere feudale o per il crociato l’investitura coincide con la capacità effettiva di svolgere la sua missione (cioè di combattere per difendere il diritto del suo signore o la fede cristiana), per il cavaliere della Tavola Rotonda il ricevere le armi e le insegne ha piuttosto il senso di un inizio – o di una iniziazione – in quanto determina per lui la possibilità di cominciare un cammino che è insieme esterno ed interiore.
Tutta la materia della Tavola Rotonda ruota attorno a un’altra vicenda, le cui proporzioni decisamente travalicano i confini ristretti delle vicende di un regno o di una dinastia per assumere i toni di un evento misterico direttamente connesso ai destini dell’intera umanità. È la vicenda del Graal, manifestazione terrena del simbolo cosmico della coppa che riceve e genera, il calderone della tradizione nordica ora mutato nel calice che ricevette il sangue del Cristo crocefisso, e che Giuseppe d’Arimatea portò in Britannia.
E proprio la ricerca di questo simbolo, emblema della presenza intelligibile e fruibile del sacro, è il primo e più importante scopo dell’istituzione della cavalleria arturiana. Ma proprio per l’assoluta peculiarità della sua missione, è evidente che non bastano in questo caso al cavaliere le consuete doti di coraggio, lealtà e determinazione per poterla portare a termine.
Così le imprese che seguono all’investitura hanno invariabilmente un duplice significato, che è esterno – quello che coincide con il trionfo sui nemici naturali e soprannaturali – ma è anche insieme interiore, in quanto determina modificazioni nell’anima del cavaliere. E potrà essere solo in virtù di tali modificazioni che questi potrà aspirare al conseguimento dell’obiettivo supremo: la conquista del Graal.
La cerca è dunque una purificazione ulteriore, dopo quella – preliminare e preparatoria – necessaria per raggiungere il grado di cavaliere. È una successiva raffinazione cui l’iniziato va incontro per realizzare uno stato che gli consentirà di percepire in modo diretto e consapevole la presenza divina, in un processo alchemico del quale egli è insieme artefice e materia.
Lo scopo allora non può essere noto e definito fin dall’inizio (come sarà invece definita la difesa dei luoghi santi per la cavalleria crociata) e nemmeno possono essere noti i nemici che l’eroe troverà sulla sua strada, essendo questi espressione esterna degli ostacoli che l’iniziato incontrerà sul suo percorso a misura che procederà nel processo di purificazione.
Ed ecco allora che l’azione del cavaliere della leggenda nasce con il crisma di una missione, ma ha il senso e l’andamento dell’avventura. Un’avventura nella quale spesso i nemici più temibili non saranno quelli fisici, da affrontare con la lancia o la spada, ma piuttosto quelli che derivano dalle debolezze e dalle imperfezioni della natura umana ancora non “rettificata”, e che avranno la forma di passioni in grado di indebolire l’eroe o di sviarlo dal suo compito. A questi nemici, invisibili ma potenti, il cavaliere dovrà opporre le armi delle sue qualità più elevate, le stesse che costituiscono il fondamento dell’etica cavalleresca.
È così che il codice morale, che il cavaliere accetta insieme con le insegne dell’investitura, diviene la sua arma più preziosa e potente. Nel rispettarlo con assoluta devozione, infatti, egli è condotto ad esprimere quelle qualità che ancora non ha sviluppato in sé, in quanto prerogativa di uno stato che ancora non ha raggiunto. Solo procedendo nell’avventura – e quindi nel processo di purificazione – egli avrà modo di portare all’interno i principi che sono alla base dei suoi voti di cavaliere, realizzandone il contenuto e la vera essenza per esserne interiormente trasformato. E la sacra coppa del Graal potrà essere trovata solo da un cavaliere che sia assolutamente puro, e cioè che abbia completato il processo di purificazione, così da poter cogliere la presenza del divino nel mondo e, nel coglierla, collegarsi ad essa.
È forse, quello della purezza, il tratto che più di ogni altro differenzia la cavalleria storica medievale da quella leggendaria. Nella prima, infatti, tale virtù rappresenta uno dei tanti doveri del cavaliere, che provvede a rinnovarla e a mantenerla attraverso la pratica dei sacramenti e il rispetto dei voti inerenti il comportamento.
Per il cavaliere della leggenda, invece, l’attributo della purezza riveste un duplice significato ed ha, pertanto, una duplice accezione, così come si evince soprattutto dall’esame dei personaggi le cui vicende sono più direttamente collegate agli eventi del Graal: Parsifal, Galahad e Lohengrin.
È una qualità di ingenuità e di trasparenza all’inizio del viaggio iniziatico, quasi una predisposizione innata dello spirito a ricevere gli strumenti che produrranno la trasformazione. È la capacità di riconoscere, quasi per istinto, la via che conduce all’iniziazione e di seguirla senza dubbi e senza ripensamenti. Ed è insieme la capacità di accogliere in toto, senza resistenze e senza filtri, l’autorità e le regole che faranno da guida nel percorso.
Nell’avvicinarsi alla meta, invece, la purezza acquista il senso di simbolo del conseguimento supremo. È una condizione di puritàoriginaria, la manifestazione di uno stato sommo attraverso il quale il cavaliere realizza l’assoluto della sua condizione e perviene allagnosi.
Un altro tratto fondamentale e caratteristico della cavalleria leggendaria è poi il rapporto con l’archetipo femminile. È ben vero che tale archetipo non fu affatto sconosciuto agli ordini crociati, e soprattutto ai Templari, i quali dedicarono – così come San Bernardo, loro ispiratore, fondatore e guida spirituale – una speciale devozione alla madre di Cristo, ma è altrettanto vero che la regola degli stessi cavalieri del Tempio faceva loro espressa proibizione di “intrattenersi con ogni donna”, così come li esortava fermamente a “sfuggire i baci di tutte le donne”.
Va senz’altro notato, a questo proposito, che il culto mariano istituito da Bernardo di Chiaravalle si faceva portatore di precisi moduli derivati dalla Tradizione antica, ancora una volta reinterpretando in chiave cristiana contenuti precedenti. Così la Nostra Signora invocata e adorata dai cavalieri della croce non è una divinità sessualmente “neutra”, e nemmeno la sua pregnanza in quanto oggetto di venerazione viene soltanto dall’essere riconosciuta come madre del Dio incarnato. Al contrario, quelle che risuonano nelle preghiere a lei dedicate sono, a tutti gli effetti, parole d’amore!
È un genere d’amore “alto”, essenziale, certamente privo di ogni implicazione sessuale ma, non per questo, meno erotico. Un amore che trova il suo corrispondente leggendario nel sentimento nutrito dal cavaliere della Tavola Rotonda per la sua regina.
Nella cavalleria leggendaria, però, questa profonda e coinvolta devozione non esauriva le possibilità di approccio all’universo femminile e ai misteri dell’eros. L’amore per la dama –sconosciuto e vietato al rude monaco-crociato che aveva pronunciato, fra i voti del suo rango, anche quello di castità – è invece fondamentale per il suo confratello leggendario, campione della Tavola Rotonda.
Se la purezza rimane comunque – come già abbiamo visto – anche per questi un valore necessario, dobbiamo però accettare che si tratta di una diversa espressione di tale virtù: un’espressione che non viene lesa né sminuita dal coinvolgimento erotico del cavaliere, ma che anzi, al contrario, ne risulta quasi esaltata e rafforzata. La sua, allora, non è una castità del corpo ma dello spirito. È una qualità interiore che non si esprime nell’astenersi dal desiderio o dall’atto dell’amare, quanto piuttosto nel modo di vedere e di vivere l’amore come una porta di accesso al mondo degli assoluti. Una porta da varcare, però, e non semplicemente da venerare. Una janua coelis da attraversare con il corpo oltre che con lo spirito, anche a rischio della propria integrità, anche a costo di perdersi nel farlo, come si persero Tristano, Lancillotto e tanti altri. Un’impresa. Un’avventura.
Non è diverso, allora, per il cavaliere della leggenda l’amare dal combattere, in quanto entrambi possono essere resi atti sacriattraverso un totale e incondizionato donarsi ad essi con il corpo e con il cuore, realizzando così quella perfetta fusione fra eros epathos che per il cavaliere è passione, coraggio, estasi. Un modo di essere che è già di per sé un conseguimento. Una via che è, forse, già meta.
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