di Sandro Veronesi
Recentemente mio padre ha subito un’ operazione, e, dopo la convalescenza in ospedale, l’ ho riaccompagnato a casa sua. Camminava molto lentamente, a causa dei punti e della debolezza, perciò ho cercato di farlo scendere davanti al portone per poi andare a cercare un posto dove parcheggiare la macchina, ma avevo dietro un tale che suonava il clacson come un forsennato e non riusciva proprio a concepire di dover star fermo un minuto per permettere a mio padre di scendere. Perciò, non avendo voglia di mettermi a litigare in mezzo alla strada, ho proseguito, portando mio padre con me alla ricerca del parcheggio; che ho trovato quasi subito, per fortuna, appena un centinaio di metri più avanti. Be’ , a causa della lentezza di mio padre, quella passeggiata di cento metri per raggiungere casa è stata un’ esperienza illuminante. Sulle prime mi sono trovato un po’ in difficoltà: per quanto mi sforzassi di sincronizzarmi con la lentezza di mio padre, non riuscivo proprio a non lasciarlo indietro. Dopo un po’ , tuttavia, è accaduta una cosa che ha cambiato tutto. Accortomi di essere rimasto solo, mi sono voltato e l’ ho visto fermo, appoggiato al bastone, che fissava un punto preciso per terra davanti a lui. L’ ho raggiunto, e ho guardato nel punto in cui guardava lui, ma non ho visto nulla. Poi lui ha detto: «Guarda, ci sono ancora le basi degli alberi che hanno tagliato vent’ anni fa». È vero. Ritagliati nell’ asfalto, vicino al marciapiede, ci sono ancora i quadrati di terra con la base segata degli alberelli che ingentilivano quella strada quando ci andammo a vivere, e che un giorno il Comune tagliò, non si sa perché. Così, abbiamo ripreso a camminare piano piano, scrutando ciò che normalmente non si scruta – l’ asfalto, il cordolo del marciapiede, gli interstizi di terra intorno ai tronchi segati, per controllare se vi crescesse qualche piantina – e improvvisamente quella lentezza che poco prima io non riuscivo nemmeno a concepire è diventata naturale, l’ unica velocità possibile. Abbiamo visto tante cose che per anni avevamo ignorato, e abbiamo ricordato com’ era quel pezzo di strada quando c’ erano gli alberi: ci siamo accorti che ne sopravvive uno, di quegli alberi, che chissà perché non è stato tagliato come gli altri, poi abbiamo cominciato a notare piccoli dettagli strani, o nuovi, o vecchissimi, di tutte le case che abbiamo costeggiato per raggiungere la sua. Tutte cose che alla velocità con cui si rincasa di solito non avevamo mai notato o fatto, né io né lui. E’ stato, come ripeto, illuminante… Ah, ho pensato, ma io questo lo sapevo già, avevo già scoperto l’ importanza della lentezza. L’ avevo scoperta quand’ ero adolescente e mi ero preso la fittonata per la fotografia: avevo scoperto che in camera oscura, durante la stampa di una foto, l’ incisione e la nitidezza dell’ immagine sono direttamente proporzionali al tempo di fissaggio, per cui si ottiene un risultato migliore mettendo molto meno acido nella vasca e raddoppiando o triplicando i tempi del processo. Già allora questa scoperta mi era parsa importante, filosoficamente, se così si può dire, e già allora, però, nel ripromettermi di tenerne conto, me n’ ero subito dimenticato. Poi, anni dopo, ho riscoperto la stessa cosa imbattendomi in un libro leggendario di Sten Nadolny che s’ intitola appunto La scoperta della lentezza (Garzanti): è la biografia di Sir John Franklin, l’ esploratore inglese dell’ Ottocento, che fin da piccolo era affetto da una specie di sindrome della lentezza, a causa della quale era considerato un ritardato. E invece, come il libro magistralmente racconta, proprio quella sua caratteristica fu decisiva per fargli levare le gambe da decine di situazioni impossibili nelle quali gli altri uomini, funzionando a velocità normale, sarebbero stati spacciati. Un grandissimo libro davvero, che all’ epoca parve definitivamente aprirmi gli occhi sulla insostituibile necessità di saper essere lenti. Eppure, di nuovo, inesorabilmente, sono tornato a dimenticarmene. In seguito ci pensò Pietro Ingrao a rinfrescarmi la memoria, con un formidabile elogio della lentezza pubblicato sul manifesto, che mi ritrovai a leggere col senso di colpa di Bezuchov in Guerra e Pace, quando si chiede: «Perché io so quello che è bene e continuo a fare male?». Giurai a me stesso che da quel momento in avanti avrei sempre scelto, prima di compiere ogni azione, la velocità con la quale compierla, e per un po’ ci riuscii anche; ma niente: dopo qualche tempo, e senza nemmeno averne cognizione, sono riscivolato daccapo sotto le grinfie del Tempo Veloce. Ora, questi sorprendenti cento metri di passeggiata con mio padre mi hanno nuovamente aperto gli occhi, e la domanda che mi faccio è: «Ce la farò, stavolta? Avrò mai un’ altra occasione, se spreco anche questa, per conquistare l’ arte della lentezza?». Nel frattempo la nostra civiltà ha continuato ad accelerare, è vero, e continuerà a farlo sempre più – non c’ è da sperare che sia il mondo a rallentare la mia vita; ma potrò essere tanto scellerato da farne una scusa per continuare a vivere velocemente senza alternative, quando ormai ho già scoperto che la lentezza, soprattutto la lentezza estrema, è il vero tesoro nascosto che tutti cercano, senza accorgersi di averlo sotto gli occhi? E mi sono risposto che no, non sbaglierò più, ne ho come la certezza, perché stavolta ho capito l’ ultima cosa che c’ era da capire di questa faccenda, implicita anch’ essa e anch’ essa sbalorditivamente elementare, ma proprio per questa sua evidenza sfuggitami nelle illuminazioni precedenti: io diventerò più lento ma piano, maledizione, poco alla volta, giorno per giorno, senza fretta, senza forzarmi, con naturalezza, perché, quando non è innata come per John Franklin, la lentezza si conquista lentamente.