Settembre 2007
Con questo articolo chiudo la trilogia dedicata a un sommario panorama dello sciamanesimo nel Pacifico, secondo le informazioni ricevute da Bill Kerekere nel 1980 a Wellington, in Nuova Zelanda.
Bill mi aveva parlato dell’associazione segreta chiamata del mana , che si estende come una rete su tutti gli arcipelaghi del Pacifico, manifestando esteriormente la sua attività anche sotto forma di alcune organizzazioni che gli studiosi considerano fenomeni a sé stanti, ma in realtà sono da sempre collegate fra loro.
Bill menzionò tre di queste organizzazioni: la John Frum Society di Tanna (Vanuatu), il kula-ring della Milne Bay (Nuova Guinea) e i tino faivelakau di Tuvalu. Delle prime due ho parlato negli articoli precedenti, ora tocca alla terza; che peraltro, come si vedrà, ai giorni nostri non può più essere considerata un’organizzazione, bensì una sopravvivenza legata ormai all’iniziativa di pochi singoli individui.
La Repubblica di Tuvalu è famosa nel mondo soprattutto per due motivi: primo, è titolare del pregiatissimo domain .tv; secondo, viene citata dagli ecologisti come esempio dei pericoli dell’effetto serra, perché il punto più alto del suo territorio non supera i due metri sul livello del mare, e nel caso il livello degli oceani dovesse innalzarsi sarebbe la prima nazione del mondo a scomparire (i suoi abitanti, però, non se ne preoccupano molto; perché, come mi spiegò una ragazza di Funafuti, sono buoni cristiani, e nella Bibbia c’è scritto che la fine del mondo verrà non dall’acqua, ma dal fuoco).
Oggi Tuvalu è nota a molti, ma quando Bill me ne parlò nel 1980 da soli cinque anni questo piccolo arcipelago del Pacifico Occidentale era giunto all’indipendenza, e ben pochi ne avevano mai sentito parlare.
Egli mi spiegò che si tratta dell’arcipelago più occidentale della Polinesia geografica, e che Tuvalu significa “otto isole”, ma in realtà sono nove (i loro nomi: Funafuti, Nanumea, Nanumaga, Niutao, Nui, Vaitupu, Nukufetau, Nukulaelae e Niulakita ).
Mi disse pure che è uno dei luoghi della Polinesia rimasti più tagliati fuori dal progresso: per quanto anche lì l’azione dei missionari avesse apparentemente cancellato la tradizione sciamanica, soprattutto nelle isole minori – raggiungibili soltanto col vaporetto – le memorie erano ancora vive, e ancora vi aleggiava l’aria del mana.
Secondo lui, l’impronta della “tradizione primordiale” nello sciamanesimo tuvalese si può ravvisare nella credenza di un dio padre nei cieli, il quale però – esattamente come nel voodoo africano – veniva considerato indifferente alle vicende umane e non veniva adorato.
Il dio-padre si manifestava nella forma di quattro divinità principali preposte a reggere le sorti del mondo manifestato, e quindi – con una trasposizione che potremmo definire “confuciana” – anche al buon andamento della società civile. I nomi di questi quattro erano Tagaloa, Foilagi, Foilape e Maumau.
Tagaloa era il Gigante del Cielo, Foilagi la Volta Celeste, Foilape l’Invisibile e Invincibile, Maumau il Permanente. A loro venivano officiati regolarmente riti non solo da parte degli sciamani (vaka-atua ) ma anche degli aliki, i re delle isole, che secondo regole mirate a contenere un eccessivo aumento della popolazione sacrificavano loro buona parte dei neonati.
Nelle parole di Bill, esisteva una strettissima corrispondenza tra lo sciamanesimo polinesiano e le altre forme di sciamanesimo conosciute, per esempio il voodoo; le somiglianze, però, erano mascherate dal fatto che nel Pacifico gli dei sono a grande maggioranza divinizzazioni di esseri umani realmente esistiti. Di conseguenza, tanto gli etnologi quanto gli esoteristi classificano lo sciamanesimo polinesiano nell’ambito dei “culti degli antenati”, che a loro parere sono qualcosa di nettamente diverso dal culto ai loa del voodoo.
Non solo: influenzati dallo studio del culto degli antenati quale si presentò in seno alle civiltà mediterranee, tendono a considerarlo come una forma devozionale minore, il cui sfondo sentimentale configurerebbe una sorta di religiosità ante litteram, e le cui possibilità operative sul piano magico sarebbero insignificanti se confrontate con il ricorso diretto all’energia dei loa.
“Questa è una grande sciocchezza” sentenziò Bill senza mezzi termini, “o meglio un pregiudizio, uno di quei pregiudizi talmente radicati che riescono a sopravvivere persino alla smentita dei fatti: gli etnologi dovrebbero sapere che l’intera struttura del voodoo nigeriano si fonda sull’equivalenza loa-antenato. E in qualunque forma di voodoo esistente al mondo, che sia africano o latino-americano non importa, se chiedi a un fedele chi erano i loa ti sentirai rispondere che erano persone vissute tanto tempo fa.”
“Non ne dubito, Bill” gli obiettai, “ ma d’altra parte, le corrispondenza simboliche dei loa sono talmente evidenti – pensa per esempio ai sette colori dell’arcobaleno – da farli pensare piuttosto come entità astratte. Anch’io, se fossi uno studioso e mi sentissi dire che il loa è un antenato, mi sentirei propenso a classificare questa risposta come un’ingenua forma di mitizzazione popolare.”
“No” mi rispose: “la vera ingenuità consiste nel dare per scontato che il culto dei loa e il culto degli antenati siano due cose diverse, mentre si tratta di una contrapposizione creata in modo artificiale. Nella realtà, la definizione che l’uomo dà del dio – che lo chiami antenato o che lo chiami loa, non importa – è solo un modo per circoscrivere con le parole un flusso energetico che non appartiene all’ambito della ragione.”
Lasciato questo punto, tornò a parlarmi dei quattro dei di Tuvalu. Mi disse che la formidabile memoria genealogica dei Tuvalesi fa sì che ancora oggi molti possano vantarsi di discendere in linea diretta da loro, e se richiesti possono raccontarti le gesta di Tagaloa, Foilagi, Foilape o Maumau come se fossero vissuti fino all’altro ieri.
Foilape, per esempio, prima di diventare la Volta Celeste fu un guerriero di gigantesche dimensioni, che guidò alla riscossa gli abitanti di Funafuti contro l’invasione da parte di una banda di Tongani. Trascorse il resto della sua vita pagaiando tra le isole dell’arcipelago in cerca di un avversario abbastanza forte da sfidarlo in combattimento, ma non riuscì mai a trovarlo.
“E’ proprio da racconti come questi” mi spiegò Bill “che puoi cogliere la natura del legame dio-antenato. E’ chiaro che dopo la morte di Foilape, la sua figura – tramandandosi nei racconti da una generazione all’altra – fu fatta oggetto di una sorta di stilizzazione: i tratti meno importanti del personaggio vennero prima minimizzati e poi cancellati, i tratti più salienti vennero evidenziati, amplificati ed arricchiti. Così, poco a poco, lo fecero diventare il dio della Volta Celeste, e una metamorfosi analoga fu riservata anche a sua sorella Tinai, che diventò la protettrice di Funafuti. E’ una figura che assomiglia abbastanza alla Madonna dei Cristiani e anche a Marimi, la dea maori della Luna.”
“Metamorfosi come queste non sono affatto meri espedienti mediante i quali i narratori si assicuravano maggiore attenzione da parte del pubblico: era un processo consapevole, tramite il quale poco alla volta la figura dell’antenato veniva rivestita delle prerogative di un dato loa. Poco per volta, il ricordo del loa andava sovrapponendosi a quello dell’antenato, finché il ricordo dell’antenato diventava un mezzo per ridestare in sé le energie del loa .”
“Da questo puoi capire l’interesse dei Polinesiani per le genealogie, che i missionari scambiarono per senso della famiglia, e riguardo al quale sono state scritte tante stupidaggini. Un Tuvalese medio può snocciolarti il suo albero genealogico generalmente fino alla decima generazione, e un Tuvalese colto andrà parecchio più in là. Ma questi alberi, più che ad alberi, andrebbero paragonati a reggimenti di artiglieria: potentissime macchine mnemoniche per amplificare e all’occorrenza assommare tra loro le energie dei loa, e poi proiettarle nel punto desiderato mediante i riti opportuni.”
“Mi stai dicendo che tutti gli antenati sono usati per questo?”
“Tutti, sì. I quattro dei che ti ho citato sono solo l’avanguardia del processo di divinizzazione. Ma dietro di loro, gli antenati in via di trasformazione sono migliaia, tutti sparpagliati in punti diversi di un immaginario percorso lineare a un estremo del quale sta l’uomo e all’altro i loa.”
Bill aggiunse che, per quanto in Polinesia il concetto di loa in quanto forza disincarnata sia estraneo, ciò non toglie che anche lì, come dovunque, gli dei-antenati potrebbero essere riordinati secondo la legge del settenario, se qualcuno avesse voglia di farlo.
“Ma non ne abbiamo tanta voglia” mi confidò. “Noi Polinesiani siamo gente molto pratica… e un po’ pigra.”
Passò poi a illustrarmi il culto degli dei-antenati nei dettagli. Sull’isola di Nanumaga, tanto a Foelagi quanto a Maumau era dedicata una capanna-tempio, nelle quali venivano conservati i loro teschi. Quando moriva un personaggio importante, i membri del suo clan – dopo aver bruciato il corpo – portavano i resti in una di queste capanne. Il terzo giorno, la testa veniva asportata, e i sacerdoti raschiavano via la carne dal teschio e la mangiavano, mescolata a polpa di cocco; il teschio pulito e la mandibola erano riportati al tempio, venivano chiusi in un recipiente e diventavano oggetto di adorazione.
Capanne-tempio di questo genere esistevano un tempo a centinaia in tutte le isole dell’arcipelago, anzi si può dire che ogni clan familiare ne avesse una. In esse, oltre ai teschi degli antenati-dei, c’erano anche statuette di pietra o corallo che li raffiguravano, e in molti clan si veneravano anche altre cose: per esempio le forze della natura (l’arcobaleno, la luna, le stelle, l’oceano ecc.) e gli oggetti di forma notevole, come sassi o conchiglie la cui forma ricordava figure umane o animali. Oggetto di adorazione erano anche gli oggetti estranei all’isola, portati a riva dalle correnti o gettate fuoribordo dalle navi di passaggio: piccole scuri, coltelli d’acciaio, posate, bottiglie.
Se posso inserire qui un’esperienza personale: soggiornare per molto tempo nel microcosmo di un atollo determina effettivamente strane modificazioni mentali nel rapportarsi con gli oggetti provenienti dall’esterno. Nel corso del mio viaggio a Nauru del 1996, dopo due mesi che vivevo sull’isola a 35° di temperatura diurna e in condizioni piuttosto primitive, raccolsi sulla spiaggia un ciottolo curioso: era probabilmente il residuo di qualche meccanismo elettrico levigato dal mare, una sfera piatta di ceramica con incastonato nel mezzo un pezzo di plastica grigia perfettamente quadrato. Mi sedetti sulla spiaggia, mi fissai a guardarlo e persi completamente la nozione della realtà: all’ora di pranzo la mia ragazza dovette venirmi a cercare, e non ricordavo cosa fosse successo nel frattempo.
La principale offerta di cibo per gli antenati-dei erano le noci di cocco perché questo frutto è simile nella forma alla testa dell’uomo, e la sua polpa rappresenta analogicamente la carne: davanti a ogni teschio doveva esserci sempre un cocco fresco. Bill ignorava se qualcuno abbia mai rilevato il nesso tra il candido colore della polpa di cocco e l’accoglienza riservata nel Pacifico ai primi navigatori bianchi, che venivano – a seconda dei casi – venerati o mangiati: in qualche caso, prima una cosa e poi l’altra.
Oltre alle noci di cocco venivano offerti anche altri cibi; ma in questo caso, le famiglie lasciavano il cibo al tempio per qualche giorno affinché l’antenato potesse servirsi per primo, dopodichè se lo riportavano a casa e se lo mangiavano.
Su certe isole, una o più statuette erano collocate in una capanna più piccola, collocata un po’ in disparte rispetto alla capanna-tempio del clan; questi dei non venivano abitualmente adorati, ma si ricorreva loro in caso di necessità, per proteggersi dai nemici o colpirli.
Analogo al culto degli dei-antenati, ma molto meno importante, c’era a Tuvalu anche il culto delle energie legate ai luoghi: a Funafuti, per esempio, il dio-luogo più adorato era Afu, incarnato in una grande pietra presso la quale la gente depositava le sue offerte. Quando il maltempo impediva per lungo tempo ai pescatori di uscire in mare e il pesce scarseggiava sull’isola, la gente chiedeva al sacerdote di pregare Afu perché facesse salire i pesci dalle profondità dell’oceano.
Il sacerdote radunava tutte le bambine e le ragazze nubili, le faceva spogliare nude e le guidava in processione intorno alla pietra di Afu, salmodiando invocazioni perché provvedesse l’isola di pesce. Dopo il rito, la gente correva alla spiaggia, e immergendosi nelle acque di pochi passi poteva raccogliere con le mani un gran numero di pesci, apparentemente storditi ( queste magie per la pesca sono diffuse anche in altre parti del Pacifico: nei primi anni del dopoguerra, Folco Quilici fu testimone diretto di un rito analogo in un piccolo atollo delle isole Kiribati ).
Legate agli dei-luogo erano due categorie specifiche di riti: i riti di accoglienza e i riti di transito. Il più tipico rito di accoglienza veniva officiato quando su un’isola giungevano piroghe con a bordo stranieri.
Sull’isola di Nanumea, la procedura era questa: mentre le piroghe si avvicinavano alla riva, i nativi si precipitavano nell’acqua, le sollevavano con i visitatori ancora a bordo e le trasportavano in spalla nell’entroterra. Portavano gli stranieri di fronte a una gigantesca concrezione corallina, alta quasi tre metri, che veniva considerata la residenza del più importante dio-luogo dell’isola. I locali gli offrivano cibo, poi invitavano i visitatori a fare altrettanto; al termine, li spruzzavano con violente secchiate di acqua di mare, e solo allora erano padroni di circolare liberamente sull’isola.
Invece i riti di transito erano per gli isolani una necessità a cui ricorrere quotidianamente: perché, oltre agli dei-luogo ai quali la gente offriva cibo e oggetti preziosi, ce n’erano molti di minore importanza per quanto riguarda l’adorazione, ma terribilmente temuti per la loro malignità.
Poiché si pensava che dopo il tramonto abbandonassero il loro luogo e si aggirassero sull’isola, nessuno usciva di notte se non era strettamente obbligato.
Se per qualsiasi motivo una persona doveva transitare nell’area che era considerata la residenza di un dio-luogo maligno, era tenuta a chiedergli il permesso, e – se richiesto – a pagargli un pedaggio sotto forma di preghiera, di dono o addirittura di una breve cerimonia. Il rapido successo del cristianesimo fu agevolato dalla constatazione che i missionari si spostavano dovunque senza sottoporsi a questi fastidiosi obblighi e in apparenza non ne risentivano danno alcuno.
Per innumerevoli secoli prima dell’avvento dei missionari, i vaka-atua avevano svolto la funzione di rappresentare gli dei presso gli uomini e viceversa. Erano temuti e rispettati per il loro potere di chiedere agli dei di portare disastri sulle persone che odiavano e su quelli che avevano la sfortuna di aver attirato su di sé l’antipatia di qualche dio. Non lavoravano, e la gente li provvedeva di cibo; quando davano un ordine, anche i re dovevano obbedirgli.
Nelle isole meridionali dell’arcipelago c’era un solo vaka-atua alla volta. Alla sua morte il suo successore era di solito (ma non necessariamente) suo fratello o suo figlio. Essendo considerato persona sacra, viveva con la sua famiglia separato dal resto della popolazione. Nelle isole settentrionali, i vaka-atua erano più numerosi, e vivevano mescolati alla gente comune.
Quando il cristianesimo pose fine al potere dei vaka-atua, anche i membri delle loro famiglie apparentemente si cristianizzarono, ma le arti per controllare gli spiriti continuarono a essere tramandate in segreto.
“Ci sono ancora vaka-atua ai giorni nostri, Bill?”
“Sì, certamente” mi rispose: “ce ne sono alcuni. Ma non li chiamano più vaka-atua, che significava qualcosa come sacerdote: oggi li chiamano con un termine più negativo – tino faivelakau, qualcosa di simile a stregone.”
“Non sono molto popolari, quindi.”
“L’hai detto. La gente li odia e li teme. Non solo per i poteri che hanno, ma anche e soprattutto perché la loro presenza disturba il sogno dei Tuvalesi di essere come noi… occidentali e civilizzati.”
Bill sospirò. “Se il vento non cambia, potrebbero estinguersi entro qualche anno. Soltanto la loro forza di volontà davvero soprannaturale gli ha permesso finora di crearsi una discendenza in un ambiente così avverso.”
Erano passati quindici anni esatti da questa conversazione quando, nel novembre 1995, i casi della vita mi fecero sbarcare a Funafuti da un bimotore a elica della Marshall Islands Airline.
Funafuti è un atollo semisommerso, formato quindi a sua volta da una miriade di isolette disposte ad anello (le più importanti: Fualfere, Mulitefala, Amatuku, Fagafale, Faatato, Papaelise, Funafala e Tepuka). Su Fagafale c’è tutto: la capitale dello Stato, l’albergo e l’aeroporto, anche se a dir la verità di posto per l’aeroporto non ce n’è tanto, difatti ogni tanto un aereo casca in mare.
La sera del mio arrivo ero stanco, ma uscii ugualmente dall’albergo per una breve passeggiata. Appena fuori, lo choc visivo fu elettrizzante: a Fagafale infatti non c’è neanche una casa come la intendiamo noi, solo le classiche capanne polinesiane col tetto di paglia a spiovente e aperte sui lati. I passanti che incontravo mi salutavano urbanamente, seminudi e scalzi, con indosso soltanto i lava-lava tradizionali. Presso la cima delle palme erano praticate incisioni verticali sotto le quali era appesa una bottiglia per raccogliere la linfa che rapidamente fermentava producendo il vino di palma detto Toddy; un signore che stava scendendo da una palma mi chiese in ottimo inglese se l’avevo mai assaggiato, e alla mia risposta negativa mi offrì la bottiglia, da cui bevvi un sorso.
Stimando che mancassero ancora circa tre ore al tramonto, decisi di arrivare fino all’estremità settentrionale dell’isola, che distava ad occhio non più di sei o sette chilometri. Dopo dieci minuti che camminavo, un gruppo di operai si informò sulla mia destinazione, e sentenziarono che non ce l’avrei fatta a tornare all’albergo prima del tramonto; uno di loro allora mi imprestò una bicicletta da corsa verde, senza freni.
Con la bici era tutta un’altra cosa: in pochi minuti mi lasciai l’abitato dietro le spalle, pedalando su un sentiero in terra battuta che si stringeva sempre di più. Anche l’isola, di forma affusolata, diventava sempre più stretta: a un certo punto mi accorsi di essere in grado di scorgere l’oceano su entrambi i lati, al di là dei palmeti e delle capanne.
Esattamente in quel momento, il sole scomparve all’improvviso, e sulla mia testa si rovesciò un formidabile scroscio di pioggia, arrivato furtivamente da dietro le mie spalle. Ma ero attrezzato: portavo allacciato in vita un impermeabile tascabile, e lo indossai. Era arancione.
Andai avanti ancora, sotto la pioggia, nel profumo della polvere che si alzava. Non c’era più anima viva, e intorno a me l’isola era sempre più stretta. C’era il sentiero largo non più di due o tre palmi, ai lati due scarpate di scogli alte circa un metro, ai lati un altro metro per parte di spiaggia corallina, e oltre a quella l’oceano.
Di colpo, un granchio enorme attraversò il sentiero di fronte alla bici, costringendomi a piantare le punte dei piedi in terra per frenare. Sparì alla velocità del fulmine, lasciandomi un’enorme impressione: era la prima volta che incontravo i granchi giganti del Pacifico. Mi era sembrato grosso quasi come un gatto.
Alzai gli occhi dal manubrio e mi guardai intorno. Il sole al tramonto aveva acceso di rosso un’ampia porzione del cielo plumbeo. Davanti a me, la terra era un filo sottile che si estendeva solo più per qualche decina di metri, e intorno – vicinissimo – l’Oceano Pacifico si estendeva a perdita d’occhio da entrambe le parti, calmo e immobile come una tavola di un cupo blu grigiastro.
Allora ebbi un flash fortissimo, che mi compenetrò in un istante di tutta la surreale assurdità della situazione. Vidi me stesso, con un impermeabile di plastica arancione, su una bici da corsa verde, completamente solo su un filo di terra che correva in mezzo al Pacifico. Sembrava impossibile, eppure era reale. Fui pervaso da capo a piedi da un indicibile senso di consapevolezza di quanto siano eccezionali questi anni che ci è dato di vivere.
Girai lentamente la bici e mi avviai sulla via del ritorno, pedalando piano. Tutto mi sembrava diverso: assaporavo ogni attimo, ogni movimento. Nella luce che andava cancellandosi, le snelle figure dei palmeti mi sembravano circondate da una tremula aura multicolore.
Alcuni minuti più tardi le tenebre erano discese completamente, e persi il sentiero. In un attimo, mi ritrovai completamente circondato dai palmeti e dalla fitta boscaglia. Provai a fare marcia indietro per ritrovarlo, e mi persi ancora di più. Ormai la bici non poteva quasi più muoversi sul terreno ingombro e fangoso: la lasciai appoggiata a una palma e continuai a piedi, cercando di orizzontarmi.
Non ero molto preoccupato: l’isola era piccola, e sapevo che in qualunque direzione mi fossi mosso avrei trovato qualcosa. Le nubi si diradarono e una luna quasi piena apparve nel cielo, diffondendo sulla foresta una tenue luce bluastra.
L’umidità che irradiava dal terreno portava con sé qualcosa di strano: non erano solo i profumi della polvere e delle palme, era qualcosa che dava al cervello: forse gli effluvi della fermentazione.
Nello stato di attenzione ipervigile in cui mi trovavo, potevo cogliere come il fluire dei pensieri fosse influenzato da quel sentore particolare: era come se un vapore si levasse dal mio subconscio, condensandosi in nebbia, e in quella nebbia c’erano immagini e voci indistinte.
Compresi che la foresta stava comunicando con me nello stesso modo in cui, da millenni, la natura aveva parlato agli sciamani di tutto il mondo, svelando loro le immagini e i nomi delle forze sottese al velo del mondo manifestato. Se fossi rimasto a Tuvalu per molti anni, ogni notte quelle immagini avrebbero preso forma più distinta e quelle voci si sarebbero fatte più chiare: ne sarebbe nata una cosmologia, da quella un pantheon, dal pantheon il potere di influenzare il corso della natura con magie e riti.
Adesso i tino faivelakau erano intorno a me: li avevo trovati. Con un lampo appena percettibile, presi coscienza di circa due o tre invisibili presenze umane, che mi avevano raggiunto e stavano accompagnandomi nel cammino.
Ricordo che pensai: “Cristo, che pochi: non sono rimasti più di due o tre in tutta l’isola. Bill me l’aveva detto: è proprio un fenomeno in via d’estinzione”.
Dentro di me una voce rispose distintamente, in inglese: “sì, siamo in tre, ma non ci estingueremo. XXX (nome confuso, che non ricordo) è qui a Funafuti: ha ottant’anni ormai, e morirà senza lasciare discepoli. Non lo cercare, perché non vuole parlarti.”
La voce continuò: “ YYY (altro nome confuso) non è qui: sta a Niutao. Ti manda i suoi saluti, ma non è con lui che devi parlare stasera.”
“Con chi devo parlare allora?” chiesi ad alta voce; ma non ebbi risposta.
La cosa più incredibile è che questo discorso venuto dal nulla non aveva causato in me la benché minima emozione: lo avevo ricevuto come la cosa più naturale del mondo, annotando mentalmente ogni parola. Anche dopo, non ebbi tempo di riflettere sulla stranezza della cosa, perché mi ero accorto di essere uscito dalla foresta, e il desiderio di ritrovare al più presto la via dell’albergo aveva prevalso su ogni altra sensazione.
Mi guardai intorno. Mi trovavo su una lunga spiaggia di frammenti corallini bianchi, che sembravano azzurri sotto la luce della luna. Lo spettacolo era magnifico.
Lontano sulla spiaggia, qualcuno stava avanzando nella mia direzione. Lo vidi avvicinarsi nella penombra: un uomo alto, atletico, vestito solo con il lava-lava tradizionale.
Si fermò a due passi. Era alto circa due metri. Il mio sguardo si soffermò fugacemente sul torace bronzeo, da atleta, e si fissò sul suo viso: severo, allungato, era identico in tutto e per tutto alle fattezze di un moai dell’Isola di Pasqua.
Ma non era un’allucinazione: era un uomo reale, in carne ed ossa – potevo sentire il suo fiato, leggermente ansante per la camminata. Mi guardava in silenzio, e anch’io facevo altrettanto, stupefatto: sebbene fossi più volte rimasto sorpreso dall’eccezionale prestanza fisica dei Polinesiani (che a volte non sembra nemmeno terrestre), quello era di gran lunga l’uomo più grande e più bello che avessi mai visto in vita mia.
“Good night” mormorai. Ero incuriosito, ma non spaventato: qualcosa mi diceva che quel gigante non rappresentava per me un pericolo.
Il suono della mia voce gli diede un’impercettibile scossa, come se si destasse da un sogno. Mi sorrise urbanamente, e parlò.
“Dovresti andare a Niutao” disse, col tono di chi riprende un discorso da poco interrotto: e la scossa nervosa che mi causarono queste parole fu la più forte della mia vita, perché era la stessa voce che aveva parlato nella mia mente nella foresta.
“Dovresti andare a Niutao, anche se il viaggio è difficile: ci puoi andare soltanto col vaporetto, che fa il giro delle isole una volta ogni due mesi. E poi dimmi, sai nuotare? Il vaporetto si ferma fuori dal reef, se il mare è un po’ grosso andare a riva a nuoto è l’unica soluzione.”
Sentivo la sua voce allontanarsi; eppure era lì, il suo volto a pochi palmi dal mio. Continuavo a guardarlo negli occhi come ipnotizzato, e sentivo il mio corpo scosso da tremiti.
“Niutao è bella. E’ la mia terra. Ma, non so se ti adatteresti. Non c’è corrente elettrica: hanno soltanto un generatore, che un po’ funziona e un po’ no. E un’altra cosa: sono rimasti in pochi, ora, non più di quarantacinque persone. Sai, l’uragano del 1971 ha spazzato l’isola da parte a parte, e ne ha portati via molti. Anche i miei figli. Adesso vivono in fondo al mare ”
Sempre più lontano; dovevo sforzarmi per sentire. “Quando andrai a Niutao, cammina da solo nella foresta. Troverai per terra delle carte da gioco: dei re, delle donne. Non devi toccarle: sono io che ce le ho lasciate. Ogni carta è una nazione della Terra, e se le tocchi… (mormorio indistinguibile).”
Il suono della voce tornò per alcuni secondi, rimbombando nella mia mente metallica, come un coro. “A Niutao c’è una spiaggia con la sabbia profumata… sì, profumata. Tu entri nell’acqua di due passi, raccogli una manciata di sabbia e la accosti al naso… Sentirai come profuma…”
Il silenzio cadde all’improvviso, e anch’io caddi in avanti, perché a forza di protendermi verso di lui per sentire meglio avevo perso l’equilibrio. Lo vidi con la coda dell’occhio fare un passo indietro, levare le braccia al cielo, e nell’attimo in cui mi abbattevo sulla sabbia ci fu un lampo e un tuono.
Un attimo dopo, una cascata d’acqua gelida si riversava su di me. Aveva ripreso a piovere, eccome! Mi alzai d’istinto, e seguii il mio compagno che correva a ripararsi nella foresta.
Ansanti, ci fermammo sotto un albero e lo guardai. Era un vecchietto cadente, non più alto di un metro e sessanta, dalla bocca sdentata. Con aria preoccupata guardava in direzione dell’oceano, che da un attimo all’altro si era gonfiato in spettacolari cavalloni; con tonfi violenti si abbattevano sulla spiaggia, e la risacca sfrigolante giungeva fino a pochi passi da noi.
Lo osservai per alcuni secondi, incredulo. Poi gli puntai un dito contro, e in qualche modo riuscii a parlare.
“Lei ha il potere di scatenare la tempesta. E di apparire vecchio o giovane a suo piacimento. E’ lei, signore, il terzo tino faivelakau.”
Il vecchietto si scusò umilmente: mi disse che non parlava bene l’inglese. Ma se gli avessi dato dieci dollari, mi avrebbe mostrato la strada per l’albergo.