di Marco Maculotti
Dalla tradizione dei Maori ai semi-dimenticati Moriori, risalendo a ritroso verso componenti etniche e culturali che sfociano nel mondo del Mito: i Patupaiarehe, popolo «fatato» delle leggende, l’influenza indiana, la sconcertante distribuzione della patata dolce kumara su entrambe le sponde del pacifico, la teoria «talassocratica» di Thor Heyerdahl… fino alle più moderne analisi genetiche.
Oggi, quando si parla di popolazioni native della Nuova Zelanda, la mente va subito ai Maori, conosciuti in tutto il mondo per i caratteristici tatuaggi e per le danze guerresche. Nondimeno altri gruppi etnici e culture si sono, a ben vedere, avvicendati nella storia della colonizzazione dell’isola, e ciononostante seguitano a rimanere invisibili per la maggior parte del mondo accademico.
In questa sede avremo modo di indagare in quali termini l’esistenza di gruppi etnici arcaici, insediatisi sull’isola prima degli attuali abitanti, sia in primo luogo corroborata dalla stessa tradizione orale maori, nonché da alcune “contaminazioni” presenti nel loro idioma e nella denominazione astronomiche (di derivazione indiana), e infine — come si è evinto grazie alle recenti analisi genetiche, effettuati su resti ossei e sul corredo di neozelandesi autoctoni viventi — nel DNA.
LO STERMINIO DIMENTICATO DEI MORIORI
Tra le popolazioni autoctone spesso dimenticate della Nuova Zelanda, una prima obbligata menzione è da riservare ai Moriori, gruppo etnico di ceppo polinesiano (secondo alcuni “paleo-caucasoide”, simile agli Ainu del Giappone) che a partire dal 1500, separatosi dal ceppo principale Maori, si stanziò nelle isole Chatham, a Sud della Nuova Zelanda. Portati dalla precarietà della loro esistenza (le Chatham sono tra i posti più duri in cui sopravvivere in tutto l’arcipelago, causa le temperature notevolmente più rigide della media per la vicinanza all’Antartide), nonché dalle leggi del loro capotribù Nunuku-whenua (divinizzato in seguito alla sua morte) a bandire qualsiasi tipo di attività bellica e la pratica del cannibalismo, si trovarono improvvisamente nell’occhio del ciclone della storia, andando incontro a quella che, sebbene poco conosciuta, si configura come una delle pulizie etniche più feroci di sempre.
Già in precedenza decimati del 10% a causa delle malattie importate dagli Inglesi, contro le quali non avevano alcuna difesa immunitaria, furono tuttavia i “vicini di casa” Maori, armati dagli imperialisti britannici, a compiere una strage che non ha precedenti nella storia dell’Oceania, se non altro per il fatto di aver visto nel ruolo di carnefice — oltre che in quello di vittima — un’altra popolazione egualmente indigena, e non l’uomo bianco.
Nessuno può dire con certezza cosa sia scattato nella mente dei Maori nel momento in cui si sono trovati in possesso, per la prima volta, di armi a così alto potenziale bellico. Le cronache storiche si limitano a riportare che si trattò di una vera e propria carneficina: in seguito alla pulizia etnica del 1835, a metà del XIX secolo i Moriori costituivano solamente il 10% della popolazione nativa della Nuova Zelanda. I pochi rimasti vennero quasi tutti sterminati durante le successive «Guerre Maori» (1845 — 1872), una sorta di conflitto “tutti contro tutti” tra gli Inglesi e le tribù autoctone dell’isola; oltre tremila Moriori furono massacrati solo nel 1860, durante gli scontri con la tribù limitrofa Tuwharetoa. L’ultimo uomo con sangue interamente moriori, tale Tommy Solomon, venne a mancare il giorno il 19 marzo 1933, decretando così la scomparsa effettiva dalla storia di questa componente etnica.
Non sarà questo, tuttavia, l’argomento specifico su cui ci concentreremo in questa sede: vogliamo occuparci piuttosto di indagare la stratificazione etnico-culturale della Nuova Zelanda, partendo dalle storie della tradizione orale che costituiscono il corpus mitico-storico del popolo Maori che, in seguito al brutale etnocidio ai danni dei pacifici Moriori, è ad oggi l’unica componente autoctona della Nuova Zelanda — o quantomeno, come vedremo, l’unica pienamente riconosciuta come tale. Nondimeno, la narrazione di ciò che è stata la storia dell’isola dacché se ne ha memoria presenta molte zone d’ombra, avvicendamenti etnico-culturali che vengono dai più ignorati, anche per la negligenza — come avremo modo di vedere — di addetti ai lavori che a ragion veduta si potrebbero definire “negazionisti”.
Moriori
I PATUPAIAREHE, PROGENIE FATATA DEL FOLKLORE NEOZELANDESE
È la stessa tradizione orale maori a tramandare che quando, intorno al 700 d.C., i primi di loro misero piede in Nuova Zelanda, essi trovarono una stirpe di uomini già stanziata in loco, che denominarono «i Misuratori», poiché sembravano ossessivamente occupati a misurare il territorio e “segnarlo” con una serie di menhir e blocchi megalitici allineati secondo alcune ley lines particolari. Proprio per il fatto di aver anticipato i Maori nella colonizzazione dell’isola, essi venivano anche chiamati Tangata Whenua, vale a dire i «Signori della Terra»; pare che vivessero sulla cima del monte Wakefield, considerata ancora oggi la «Montagna Sacra» del folklore isolano. Le leggende maori ricordano ancora oggi una sanguinosa guerra detta «dei cinque forti» durante la quale le difese di questi predecessori vennero travolte, ed essi sterminati (R. Thorsten, Lords of the soil).
Nella tradizione odierna vengono ricordati come Pākehā (plur. pakerewhā), un termine che allude alla loro pelle chiara: esso deriva infatti da Patupaiarehe, popolazione «fatata» del folklore maori, di pelle bianca tendente all’azzurro e capelli biondi o rossi, che secondo le narrazioni mitiche possedeva canoe (waka) in grado di volare. Così la leggenda di questi «fairies bianchi» viene riassunta da James Cowan nel capitolo “The Patu-Paiarehe: the Fairy People of the Mountains “in Te Tohunga di W. Dittmer [1907, p. 74]:
«Far up in the misty mountains dwell the Patu-paiarehe, the fairies of Maori Land. They are seldom seen; and, indeed, most mortals who have no gift of imagination and no mana-tapu cannot expect to behold the good people, and many who know no better deny their existence. It is supposed by some that they were really tribes of aborigines whom the Maoris found dwelling in this wild new land when they arrived here from the isles of Polynesia. But the old Maoris say that they still inhabit certain of the lofty forest-clad mountains of Aotearoa — a numerous people, some of them tiny gnomes and elves and pixies, some of them in the presentment of men and women of this world but smaller and exquisitely — shaped and with fair hair and fair skins just like Europeans. They are known to the Maoris by several names: Turehu, Tahurangi, Macro, and Patu-paiarehe; but their common designation is Patu-paiarehe. They are a bright, cheerful race, and take great pleasure in music. They are skilled in charms and the art of enchantment, and many a strange adventure has happened to the Maori who has had the temerity to venture into their haunts.»
Altri termini che vengono utilizzati dagli autoctoni per indicare coloro che sono caratterizzati da pelle chiara e rutilismo sono Turehu, Ngati Hotu e Urukehu: parole utilizzate ancora oggi dai Maori per indicare sia questa misteriosa popolazione che li anticipò nella colonizzazione dell’isola, sia più in generale le genti di ceppo europeo o comunque dalla pelle bianca. Quando gli Inglesi giunsero in Nuova Zelanda con i propri vascelli, i Maori li scambiarono per questa antica stirpe che ritornava: uno dei loro capitribù, vedendoli arrivare, affermò infatti: «ko te pakerewhā», vale a dire: «sono i pakerewhā» (qualcosa di simile accadde, oltre che nelle isole del Pacifico — particolarmente famoso è il caso del capitano James Cook nelle Hawaii — nelle Americhe al momento della Conquista spagnola).
D’altronde, testimonianze di individui caratterizzati da pelle chiara e capelli tendenti al biondo o al rossiccio e di corporatura più massiccia della media si ritrovano in tutto il Pacifico a partire dall’epoca delle esplorazioni: da Tahiti alla Micronesia (ne parla Louis Antoine Conte de Bouganville nel 1772 e Louis Figuier nel 1874), dalla Polinesia (Mario Canella 1942) alle Isole Salomone (Pedro Fernandez de Quiros), dalle Isole Molucche e Sandwich alle Marchesi (ancora nel 1902 Paul Huguenin rilevava che le famiglie dei grandi capi di Nouka Hiva nelle Marchesi si denominavano «Arri» ed erano caratterizzati da occhi bluastri e capelli tendenti verso il rosso).
Quello che è certo è che la mitologia dei Maori stessi, nonché il loro idioma, sono stati influenzati indelebilmente dall’incontro e dalla convivenza con queste genti che li precedettero e che, in seguito all’arrivo dei Maori, vennero da questi ultimi sterminati e in parte assorbiti (c’è chi ha ipotizzato che i Moriori fossero il ceppo etnico in cui si mantenne maggiormente l’apporto genetico di questa stirpe ignota). Nell’ultimo secolo diversi studiosi di etnologia e di arte religiosa, non ultimo Thor Heyerdahl (American Indians in the Pacific, 1951), hanno notato la singolare somiglianza fra alcuni pattern caratteristici dell’arte Maori e altri di culture lontane nel tempo e nello spazio: si è fatto soprattutto il nome dei Celti per i motivi decorativi «a nodo», nonché degli hawaiani, dei tahitiani e di alcune popolazioni amerindie della costa Nord-occidentale per la corrispondenza con i loro totem e Tiki.
UN’INFLUENZA INDIANA?
Sul finire dell’Ottocento, lo studioso neozelandese Edward Tregear, fervente sostenitore del “metodo comparativo”, scrisse il controverso volume The Aryan Maori (1885) in cui, rifacendosi metodologicamente agli studi filologici dell’orientalista Max Müller, analizzò la mitologia maori e soprattutto l’idioma, confrontandolo con il sanscrito e con le altre lingue della famiglia indoeuropea. La sua ipotesi era che l’idioma e il corpus mitico-folklorico dei Maori neozelandesi fosse stato plasmato da un’influenza esterna, probabilmente proveniente dall’India. In questo estratto, ad esempio, prende in esame un termine della lingua maori, rangatira, che si può accomunare al latino vir e al sanscrito vīra («uomo, eroe», nel linguaggio tantrico «iniziato») [p. 88]:
«The Maori word rangatira is a good example for us to consider. The English use the word “man” in two senses, one having the sense of (Lat.) homo, a man, meaning a human being (and including women and children); the other the sense of (Lat.) vir, a man, a virile man, a male. […] Ranga-tira means the rayed, shining man, the chief, not the common crowd.»
Anche la conoscenza della volta stellata ai fini della navigazione sembrerebbe essere stata insegnata ai Maori da antichi coloni provenienti dall’India, dal momento che essi chiamano le costellazioni coi nomi derivanti dalla tradizione induista, peraltro tributando la massima importanza ad asterismi come l’Orsa Maggiore e le Pleiadi che godevano, nei testi vedici, della più alta considerazione [p. 107]:
«When the Maoris lost sight of the sacred constellation, the Great Bear, the Riki (seven stars — Seven Rishis), they still held in the Pleiades, and called them Matariki (eyes of the Rikis).»
L’impianto interpretativo di Tregear, sebbene non privo di iperboli e di interpretazioni audaci, si rivelarono grossomodo corrette, anche se ci vollero trent’anni per vederlo confermato nel saggio di Alfred K. Newman Who are the Maoris? (1914), cui fece eco James Cowan col suo The Maori: Yesterday and Today (1930), dove ipotizzò che la colonizzazione indiana fosse giunta sino in Africa. Più di recente, tra gli altri, ha contribuito alla teoria dell’“influenza induista” anche T.A. Pybus con The Maoris of the South Island (1954), dove giunge a citare l’influenza indiana su un vastissimo novero di termini, consuetudini, motivi decorativi, tecniche costruttive utilizzati dai Maori, per arrivare fino all’arte del tatuaggio [p. 13]:
«In various ways India left its impress upon the ancestors of the Maori. In Western Polynesia the people resemble the Hindu in a greater degree than do the Maoris of New Zealand. The name “Maori” is known in Northern India, viz., Maori, Mori, Mauri and Maurea. Watkin, in his Journal, uses the name Mauri when writing of the native people of New Zealand. Mr. A.K. Newman, in his book “Who are the Maoris?” points out that many Maori names and words can be traced to India. The Maori legends of the origin of Maui are the same in India. Newman also points out that the protruding tongue in Maori art is characteristic of many Indian images of gods; that the Maori fortified pas, and their mode of fighting are Indian; that their canoes and canoe sails are Indian; that their tattooing is Indian. He is also of the opinion that some of the Maori customs and habits had their origin in India, and that the foods they cultivated — the kumara and the taro — were cultivated in India and planted with the same religious rites. Cowan in “The Maori: Yesterday and Today”, page 27, calls attention to the theory (and indeed more than a theory) that those ancient intrepid navigators in their wanderings coasted down the eastern shores of the African Continent at least as far as the Zambesi, and that they visited and partly colonized Madagascar, which would account for the resemblances between the Maori-Polynesian language and Malagasy. The Rev. J.F.H. Wohlers in his autobiography also calls attention to the similarities that obtain between the Maori and the Malagasy and gives examples: “Judging by this relation of language the Malagasy in Madagascar, the Maori in New Zealand, as well as the whole Polynesian population of the South Seas, must have had a common origin, and have emigrated from the same country, etc.”»
IL CASO DELLA PATATA DOLCE KUMARA
La questione della kumara è particolarmente significativa per farci un’idea delle migrazioni e delle colonizzazioni che hanno interessato la Nuova Zelanda attraverso i millenni. Gli Europei vi ci si imbatterono per la prima volta nel 1492, quando Cristoforo Colombo sbarcò con i suoi uomini sull’isola che venne da lui ribattezzata Hispaniola (oggi Repubblica Dominicana e Haiti); qui veniva coltivata abilmente dalla popolazione nativa dei Taino. Trent’anni più tardi gli Spagnoli ne trovarono copiose colture nello Yucatán e, quando giunsero in Perù, si resero conto che l’intera costa occidentale che si affacciava sull’Oceano Pacifico pullulava di campi di kumara. Oggi si sa che la sua coltivazione ebbe inizio in Sudamerica almeno 4.000 anni prima dello sbarco dei Conquistadores, vale a dire come minimo nel 2.500 prima della nostra era, e nel Mesoamerica almeno 5.000 anni fa; il bacino di origine venne rintracciato in una zona ubicata fra la penisola dello Yucatán e il delta del fiume Orinoco, in Venezuela.
Le missioni esplorative delle isole del Pacifico che vennero compiute in seguito fecero sì che gli Europei si rendessero conto di come, a dispetto di ogni aspettativa, la coltivazione della patata dolce avesse luogo su un gran numero di isolette sperdute nel bel mezzo dell’oceano, quali ad es. Rapa Nui, le Isole Cook, le Hawaii, le Isole Salomone e, appunto, la Nuova Zelanda. Poiché con il metodo del radiocarbonio le colture delle Cook vennero datate al 1.000 d.C., si ritenne sensato ipotizzare che gli importatori fossero stati i Polinesiani, di cui gli addetti ai lavori conoscevano ormai bene le superbe doti di navigatori, al punto da denominarli «i Vichinghi dei Mari del Sud». Essi l’avrebbero importata dal Perù intorno al 700 della nostra èra, facendo tappa anche in Nuova Zelanda.
Fu solo negli ultimi anni che un nuovo studio accademico cambiò tutte le carte in tavola: si scoprì infatti che coltivazioni di patata dolce erano già presenti sul territorio polinesiano e neozelandese millenni prima rispetto all’arrivo degli antenati della popolazione locale odierna. Come ci era giunta lì, in tempi a tal punto arcaici e in lidi così fuorimano? Chi ce l’aveva portata? Quale genere di uomini, in quella che le università allora consideravano piena preistoria, era già in possesso della tecnica per compiere ‘sì titaniche traversate oceaniche e per diffondere le colture da una parte all’altra del pianeta, a proprio piacimento? Era infatti evidente che il tubero in questione doveva essere stato importato da oltreoceano, vale a dire dalle Americhe: e, sebbene la tipologia della patata dolce messicana sia maggiormente simile a quella neozelandese, è quantomeno degno di nota che la definizione di quest’ultima (kumara) sia praticamente identica a quella peruviana (kumar), come se fossero state coniate dalla stessa mente!
A noi sembra che l’eccezionale caso della kumara neozelandese confermi in toto le ipotesi avanzate nel secolo scorso da Thor Heyerdhal. Quest’ultimo, noto esploratore norvegese nonché valente antropologo e archeologo, scandalizzò gli atenei di tutto il mondo quando, intorno al 1950, teorizzò qualcosa che nessuno a quei tempi si dimostrò disposto a prendere seriamente in considerazione: la supposta esistenza, molti millenni orsono, di una civiltà talassocratica di navigatori, ricordati nella mitologia di pressoché tutte le isole del Pacifico in veste di «eroi culturali» e «antenati mitici», e come creatori delle istituzioni civili e religiose, inventori della lingua e dell’arte, maestri nelle scienze astronomiche e nelle pratiche agricole (ivi compresi i lavori di canalizzazione delle acque e di irrigazione), nonché — last but not least — diffusori del megalitismo in quasi tutte le isole dei Mari del Sud.
Partendo da queste premesse, Heyerdahl portò innumerevoli prove a conferma della sua teoria: le stesse canoe “intrecciate” si trovavano uguali sul Nilo in Egitto, sul lago Titicaca tra le Ande e in alcune culture del Pacifico; identici processi di mummificazione in Perù, Egitto, Canarie (tra i misteriosi Guanci); le stesse coltivazioni “a terrazza” in Sudamerica e nel Sud-Est asiatico; uguali tecniche di tessitura; creazione di idoli (litici o lignei) di simile fattura su entrambe le sponde dell’oceano (dai totem nordamericani, ai Tiki del Pacifico, alle rappresentazioni di esseri sovrannaturali da parte dei popoli precolombiani); utilizzo di simboli condivisi e mitologemi ricorrenti che tradiscono un’origine comune.
Quello del volto demoniaco con la «lingua sporgente» (e sovente con capelli serpentiformi e una bocca dotata di zanne), menzionato da Newman come uno dei motivi ricorrenti dell’arte religiosa di culture distanti fra loro nel tempo e nello spazio, è un caso eccezionale che forse, alla luce di quanto dimostrato da autori come Heyerdahl, non è un’eresia considerare proveniente, in origine, da una fonte comune: una cultura appunto di tipo marittimo, che si sparse qua e là portando con sé le sue conoscenze avanzate e unendosi ai vari popoli indigeni che incontrava nei vari territori dove giungevano i suoi vascelli.
La protruding tongue («lingua sporgente») si ritrova infatti in India, soprattutto nell’estremo Sud che dà sull’Oceano Indiano, dove la dea Kali è la divinità più adorata, e in tutta l’area del Sud-Est asiatico, soprattutto insulare (Bali, Giava); nel Mesoamerica (si pensi, ad es., alla rappresentazione più nota del calendario azteco) e in Perù; in varie isole del Pacifico e in alcune tribù amerindie della costa americana nord-occidentale. Ma la incontriamo anche nella nostra Europa, con picchi significativi nell’area mediterranea, dalla Grecia (anche e soprattutto insulare; vd. Medusa e le Gorgoni) all’Italia, in particolar modo fra i Tirreni/Etruschi che erano esperti navigatori e che la tradizione mitica vuole appartenenti all’enigmatica «razza rossa» che comprenderebbe anche i Fenici, i Pelasgi e altri «Popoli del Mare», i Baschi (il cui genoma sembra essere similissimo a quello degli originari abitanti di Rapa Nui [Susan B. Martinez, The Lost Continent of Pan, p. 57]), nonché forse alcuni fra gli antenati dei popoli precolombiani. Ritroviamo la protunding tongue anche nell’arte totemica delle popolazioni della British Columbia e della costa Nord-occidentale americana-canadese (Tlinglit, Haida, ecc.), popolazioni che lo stesso Heyerdahl considerava geneticamente e culturalmente connesse a quelle dei Mari del Sud.
QUALI POPOLI? QUALI ROTTE?
Negli anni Trenta del secolo scorso Maggie Papakura, donna maori di nobile lignaggio, scrisse un libro intitolato The Old-Time Maori (1938), in cui si parla di un’antica stirpe, i Ngati Hotu, di cui lei stessa sarebbe discendente, caratterizzata da pelle chiara e capelli biondi o rossicci, occhi verdi e di alta statura, corroborando le sue teorie con foto di membri viventi di questo lignaggio apparentemente ignorato dalla “storia ufficiale”. Forse la sopravvivenza di questo popolo può essere messo in relazione con le leggende che collazionò l’etnologo Elsdon Best in Tuhoe: Children of the Mist (1913): alcuni autoctoni dalla pelle chiara gli avevano raccontato che 165 generazioni prima (circa 4.000 fa), il loro lignaggio giunse dall’attuale India, in seguito a una furiosa guerra contro un popolo bruno, forse (hanno ipotizzato alcuni studiosi) quella di cui si canta nel poema epico indiano Mahabharata.
La ricostruzione più semplice da ipotizzare (nonché da dimostrare) — verrebbe automatico pensare — non può che essere quella di una fuga-emigrazione da parte dei coloni provenienti dalla penisola indiana in direzione Sud-Est, “facendo scalo” man mano nelle isole dell’arcipelago indonesiano (Sumatra, Giava, Bali) e di quello polinesiano, per giungere infine in Nuova Zelanda. Invece, secondo la maggior parte degli autori che abbiamo menzionato, gli esuli possono aver preso — in aggiunta o in alternativa a quel percorso — una via più lunga: avrebbero circumnavigato l’Africa a meridione (colonizzando il Madagascar), quindi risalirono l’Oceano Atlantico alla volta del Messico; da lì discesero verso Sud tutta la costa sudamericana e giunsero al lago Titicaca (potrebbero dunque essere i «Figli del Sole»/Viracochas del mito andino). Quindi, dall’estremità meridionale di quella che oggi è la costa del Perù, fecero tappa a Rapa Nui (l’attuale Isola di Pasqua), nelle Hawaii e sull’isola di Tahiti, per approdare infine in Nuova Zelanda [sono teorie avanzate anche nei due video della miniserie “New Zealand: Skeletons in the Cupboard”, che alleghiamo qui sotto per chi ne volesse prendere visione].
Secondo la tradizione orale, l’Isola di Pasqua fu civilizzata in primo luogo da una colonia di navigatori dai capelli biondi/rossicci provenienti dal Perù, il cui capo si faceva chiamare Hotu Matua. Essi portarono a Rapa Nui 67 tavolette incise su cui era scritta tutta la storia della loro nazione. Si dice anche che, a seguire, Hotu Matua colonizzò molte altre isole nel Pacifico, importando vari frutti, patate dolci (le già menzionate kumara), le caratteristiche canoe del Titicaca e costruzioni megalitiche come i chulpa che si possono vedere ancora oggi nei pressi di Puno, sulle sponde del suddetto lago. La tecnica con cui è stato eretto il muro poligonale dell’Isola di Pasqua denominato Vinapu è la medesima utilizzata dagli antichi costruttori di Cuzco, Ollantaytambo e Tambomachay, e ricorda anche molto le mura pelasgiche del Lazio e dell’area egea.
Esiste tra l’altro, a confermare le prove che sono state collazionate negli ultimi decenni, una tribù della Nuova Zelanda che, secondo la tradizione orale, provenne proprio dall’Isola di Pasqua, un’ottantina di generazioni fa (circa 2.000 anni): si fanno chiamare i Waitaha (lett. «Oltre le acque») [Barry Brailsford, Song of Waitaha: The Histories of a Nation]. Sembra, quindi, che gruppi di coloni di questa antica stirpe (dai più definita come “caucasoide”) giunsero dall’altra parte dell’Oceano Pacifico in un arco temporale che va da 4.000 a 2.000 anni fa, per poi interrompersi improvvisamente. I Maori arrivarono sette secoli dopo quella che sembra essere la loro ultima spedizione da oltreoceano.
Sembrerebbe una follia. Eppure i risultati del test genetico di un’alta dignitaria maori vivente [vedi i due video incorporati qui sopra], che si considera appartenente a questo antico lignaggio, ha dato esiti sorprendenti: si è scoperto che il suo genoma ha somiglianze da una parte con quello degli indoeuropei persiani (dell’odierno Iran) e dell’India del Nord — quindi, in altri termini, di quelle popolazioni che gli orientalisti del XIX secolo erano soliti definire “Ariani” — e con quello dei popoli caucasici dell’Eurasia (soprattutto Germania e Russia); dall’altra con quello di una parte di peruviani e messicani. In più, alcuni ricercatori hanno segnalato l’esistenza di alcune parole dell’idioma maori identiche ai medesimi concetti nelle più antiche lingue peruviane…
SEPOLTURE E INSABBIAMENTI
La tradizione orale neozelandese ricorda anche (non si comprende esattamente in quale misura tale stirpe sia da mettere in relazione con gli «eroi culturali» dalla pelle chiara e caratterizzati da rutilismo) una razza bianca di giganti dai capelli rossi che avrebbe vissuto in passato presso l’altopiano vicino al Raglan Harbour e a Port Waikato. Ancora oggi è possibile rinvenire i loro teschi «grossi come una zucca» — assicurano i locali —, così come altri resti sono stati trovati in una grotta presso il lago Okataina. (Si possono azzardare corrispondenze con le mummie delle necropoli di Paracas, sulla costa peruviana, caratterizzate da rutilismo, altezza considerevole e teschio allungato, e con quelle simili, rinvenute e analizzate nel XIX secolo e poi scomparse, dei mound di Adena nell’Ohio e di Lovelock Cave nel Nevada).
Nonostante il rinvenimento complessivo, negli ultimi due secoli, (si dice) di migliaia di scheletri di altezza notevolmente superiore alla media, per lo più seppelliti in posizione fetale, tutti i musei si sono rifiutati di esporli (alcuni adducendo ragioni del tipo «Non sono del nostro clan; non sono i nostri antenati; non sappiamo che farcene»). Come risultato di questa assurda decisione, sono stati quasi tutti distrutti o riseppelliti dove erano stati trovati.
A ciò si aggiunga che l’analisi genetica di migliaia di scheletri di Moriori trucidati nel XIX secolo, rinvenuti in alcune caverne, ha portato alla scoperta che il loro DNA assomiglia in modo impressionante a quello degli autoctoni pre-celtici stanziati in Galles prima del 1.500 a.C., nonché dei Baschi. Il parallelismo, sollevato da alcun ricercatori, con i Pitti scozzesi che si batterono contro i Romani nei primi secoli della nostra èra non sembra fuori luogo, tenendo conto sia dei tatuaggi con cui questi si pitturavano interamente il corpo in battaglia, sia delle “danze di guerra” che potrebbero essere non molto differenti da quelle per cui sono ancora oggi famosi in tutto il mondo i maori.
Nel 1957 sono state scoperti, all’interno della Waipua Forest, alcuni “muri a secco” molto simili a quelli che sono disseminati tutt’oggi in Irlanda o in Scozia, o sulle Alpi, che datano almeno al 2.000 a.C.; anche su queste strutture però le autorità accademiche non hanno dato alcun giudizio, e al giorno d’oggi non sono registrate negli annali della storia della Nuova Zelanda, semplicemente perché seguendo pedissequamente la teoria ufficiale del popolamento dell’isola (di cui pretende sì che i Maori siano stati i primi coloni, contraddicendo persino la tradizione dei Maori stessi!) non saprebbero che pesci pigliare. Altre strutture di questo tipo si possono ammirare non lontano dall’aeroporto di Auckland (Otuataua Stone Fields) o a Tapapakanga Park; in quest’ultimo luogo sono anche visibili i resti di una moltitudine di strutture circolari simili a torri che ricordano da molto vicina i chulpa del Perù.
CATACLISMI, COMETE E CINESI
La tradizione orale della tribù Waitaha (vale a dire quelli che sarebbero giunti 4.000 — 2.000 anni fa dall’Isola di Pasqua) riferisce anche dell’esistenza in passato di un gruppo etnico ancora precedente al loro arrivo, di «carnagione scura, capelli crespi e gambe scheletriche», che si diceva giunto da Ovest in un passato remotissimo, e in seguito stanziatasi presso il lago Hawea nell’isola meridionale della Nuova Zelanda. Pare che si tratti dello stesso ramo australoide degli aborigeni australiani, che secondo gli studiosi lasciò l’Africa dai 50 ai 70.000 anni fa per stabilirsi in Oceania. Il già menzionato Tregear lascia intendere che l’antichissima migrazione di questa razza australoide sia forse da mettere in relazione con l’inabissamento della mitica Lemuria (p. 89):
«To find the true African language you can search among the Australians or the Papuans […] Many modern men of science believe that there once stretched a vast continent or closely-connected chain of islands eastward from Africa. Whether it is now under the sea, leaving its peaks only (as geologists think), will perhaps be known one day, and “Lemuria” proved to have existed. The presence of a race with African resemblances encircles half the globe.»
Secondo i geologi la Nuova Zelanda è stata interessata da tre grandi catastrofi negli ultimi 50 millenni: la prima intorno a 45.000 anni fa, la seconda 26.500 anni fa e l’ultima circa 6.000. Più di recente, l’eruzione del vulcano Rinjani in Indonesia nel 1257 sconvolse l’equilibrio ecologico del Pacifico per secoli. Le catastrofi più vicine ai nostri giorni, come l’eruzione del 1887 del vulcano Tarawera, appaiono risibili in confronto a quelle antiche scoperte dalla geologia. La caduta di una cometa infuocata nel XVI secolo a Tamatea viene ricordata tutt’oggi nei miti maori (e anche in quelli degli aborigeni australiani, che egualmente assistettero all’evento). Nella tradizione maori si dice che «improvvisamente il cielo divenne infuocato, e l’incendio si propagò prima nei boschi e nel mare, poi su tutta l’isola meridionale»; il cratere causato da questo evento catastrofico è stato rinvenuto a poca distanza dal lago Stewart di recente, da una squadra di geofisici. Anche i Cinesi registrarono l’evento: nel 1421 avevano dato il via a un viaggio esplorativo nel Pacifico, che li portò a insediarsi in Polinesia e a giungere, sotto la Dinastia Ming, tra il 1402 e il 1424, in Nuova Zelanda — dove d’altronde sono state rinvenute ceramiche cinesi di quell’epoca.
Ma già millenni prima gruppi di coloni giunsero in Nuova Zelanda dalla Cina meridionale: la cultura Hemudu (proto-polinesiani), stanziata nel Sud-Est asiatico dai 7.500 ai 5.000 anni fa. A corroborare questa ipotesi, è stato rinvenuto un frammento ligneo di un’imbarcazione, datato col metodo del radiocarbonio a 6.000 anni fa. Partendo dal Mar Giallo, i navigatori Hemedu raggiunsero la Polinesia, le Isole Marchesi, Taiwan, il Giappone, l’Oceania, Tahiti, le Hawaii (i cui nativi ancora ricorderebbero tale evento con il mito di fondazione) e secondo alcuni si stanziarono anche sulla costa occidentale del Canada. Sarebbero appunto una delle due antiche popolazioni che si spartirono il dominio dell’Oceano Pacifico secondo la teoria di Thor Heyerdahl (l’altra essendo quella “paleo-caucasica” caratterizzata da rutilismo): la stirpe “paleo-mongola” che diede vita, sulla costa dell’America Nord-occidentale, alle culture Tliglit e Haida.
Bibliografia:
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- (de) BOUGANVILLE, Louis Antoine Comte: Viaggio attorno al mondo, 1772
- BRAILSFORD, Barry: Song of Waitaha: The Histories of a Nation
- CANELLA, Mario: Razze umane estinte e viventi, 1942
- COWAN, James: “The Patu-Paiarehe: the Fairy People of the Mountains” in W. Dittmer, Te Tohunga, 1907
- FIGUIER, Louis: Le razze umane, 1874
- HEYERDAHL, Thor: American Indians in the Pacific, 1951
- HUGUENIN, Paul: Raiatea la Sacree: Iles Sous Le Vent de Tahiti, 1902
- MARTINEZ, Susan B.: The Lost Continent of Pan: the Oceanic Civilization at the Origin of World Culture, Bear & Company, Rochester 2016
- PAPAKURA Maggie: The Old-Time Maori, 1938
- PYBUS, T.A.: The Maoris of the South Island, 1954
- TREGEAR, Edward: The Aryan Maori, 1886
- THORSTEN, R.: Lords of the soil. The Story of Turehv. The White Tangata Whenua