di Pietro Mastandrea e Fausto Sangiorgi
Nelle moderne società occidentali la massima aspirazione di ognuno è la “realizzazione” personale; intendendo con questo la propria affermazione nei vari campi. Ci si può realizzare in politica, in campo professionale e lavorativo, in quello sportivo e così via. L’intera esistenza insomma è scandita dalla competizione.
Il problema è che nella civiltà del “tutto e subito”, libertà e cultura sono valori di riferimento solo in apparenza; in pratica gli unici valori non ancora messi in discussione, vale a dire denaro e potere, sono considerati unicamente in funzione della tanto ambita “realizzazione personale”. Realizzazione che, occorre prenderne atto, non sarebbe un’aspirazione illegittima se quella sana competizione meritocratica che ha condotto l’umanità all’attuale livello di sviluppo tecnologico, negli ultimi decenni non fosse degenerata in arrivismo, in carrierismo senza regole, in ambizioni sfrenate e in assoluta assenza di scrupoli. Non sarebbe un’ambizione condannabile se l’imperativo della nuova visione filosofica esistenziale non imponesse la machiavellica concezione del fine che giustifica il mezzo, ignorando ogni legittimità e, spesso, la legalità. E ci sono persone che fanno di questa aspirazione naturale un desiderio talmente irrefrenabile, che la sua realizzazione è spesso causa di stress o, peggio ancora, di problemi psicologici difficilmente rimovibili. Pronte a fare carte false pur di sentirsi realizzate, pronte ad ignorare l’eventuale prezzo da pagare in contropartita, queste persone non prendono neanche in esame le possibili conseguenze per se stessi; e ancor meno per gli altri.
Purtroppo un tale concetto di competizione finalizzata unicamente ad interessi soggettivi, ha il grosso difetto di non concedere spazio alle esigenze della collettività, trasformandosi in uno scontro quotidiano senza esclusione di colpi. Diventa una competizione sfrenata e illimitata, quanto l’ambizione che la genera e la sostiene. Una volta raggiunto l’obiettivo prefissato ci si sente temporaneamente appagati, ma non dura a lungo. Nascono nuovi desideri da soddisfare, altri traguardi da raggiungere, e ricomincia la lotta, più spietata di prima. Non c’è mai fine a questo forma di realizzazione poiché c’è sempre chi ha di più, c’è sempre qualcuno da eguagliare e superare. Diventa insomma un inseguimento ad una tranquillità di cui vediamo l’origine senza però riuscire poi a raggiungerla, come il punto d’origine dell’arcobaleno. Spesso è lo stesso timore di perdere ciò che si è conquistato a renderci più combattivi e via via più refrattari agli scrupoli. E’ una corsa verso l’alto in cui qualche volta si vince (se si hanno i giusti requisiti di tenacia e soprattutto di spregiudicatezza), ma quando si fallisce (ed è la casistica assai più frequente) diventa un disastro; per chi fallisce e, ancora peggio, per chi gli sta vicino. Se si è poi consapevoli dei propri limiti, nascono problemi psicologici e depressioni, e si spalancano le porte degli analisti (psicologi e psichiatri) che si fregano le mani e prosperano su questa nuova tendenza. Malgrado queste prospettive affatto allettanti tuttavia, c’è chi vede nella realizzazione personale quasi una missione divina, e persegue il suo obiettivo con maniacale accanimento, spendendo tutte le sue energie per il raggiungimento di qualcosa che considera grande ma alla sua portata. Aspira a passare alla storia, ad essere ricordato come qualcuno che ha lasciato un segno, una traccia della sua esistenza terrena. Esige stima dagli altri, vuole essere onorato, rispettato, consultato, vuole guardare gli altri dall’alto, vuole comandare; in sintesi la sua esistenza è una continua rincorsa al potere. Se non soddisfa il suo egocentrismo non si ritiene realizzato; detesta sentirsi uno come tanti, far parte della massa, e questo gli procura sofferenza.
Questa tendenza è assai più diffusa di quel che si potrebbe pensare. Troppo spesso siamo portati a valutare chi ci sta di fronte dal modo con cui si qualifica. Le stesse parole possono assumere diversa valenza ed infonderci un’immagine più o meno positiva del nostro prossimo. Un esempio pratico? Se dialogando con una nuova conoscenza questa si presenta qualificandosi molto semplicemente come contadino o operaio o generico lavoratore, il giudizio su chi ci sta di fronte, la valutazione immediata, ci porta immancabilmente all’idea di una persona di scarsa rilevanza; non ci infonde ammirazione né un’opinione elevata né ci incute rispetto, ma se il nostro interlocutore si qualifica invece come produttore agricolo o imprenditore, il discorso cambia. L’immagine che ne ricaviamo è di persona che merita stima, credito e fiducia; è una persona di un certo spessore perché nella sua vita ha raggiunto dei traguardi economici, dei risultati concreti. In pratica ci appare come persona “realizzata”. Spesso si usano ipocritamente sinonimi o eufemismi per dare una apparente rivalutazione a mestieri considerati dequalificanti. Così coloro che prima erano chiamati “spazzini” sono oggi definiti “operatori ecologici” e le “serve” di una volta sono diventate “collaboratrici familiari” o colf come si ama definirle. Il lavoratore è oggi un “prestatore di opera” e la stessa forza lavoro, senza distinzione fra manovalanza generica e lavoro qualificato, è genericamente definita “Risorse Umane” e abbreviata con la sigla RU. È per questo che, ad esempio, in ospedale neanche ci sfiora l’idea che un appartenente al personale paramedico possa essere un normalissimo portantino se non lo vediamo spingere una barella.
Il metro di valutazione quindi, non è dato dai suoi valori morali (che neanche ci preoccupiamo di verificare), non dalle sue convinzioni, né dalla sua umanità o dalla sua coerenza a principi etici che dovrebbero essere il primo patrimonio di ogni uomo, quanto piuttosto dal benessere economico che è riuscito a raggiungere e dal credito sociale che è riuscito a conquistarsi.
Erich Fromm con “Avere o essere?” evidenzia proprio la contraddizione, nelle società capitalistiche e industrializzate, fra i valori etici universalmente riconosciuti (quelli che privilegiano le qualità morali, l’essere appunto) e quelli realmente perseguiti, vale a dire ricchezza e potere (l’avere). Come dire che nelle civiltà industrializzate si predica bene ma si razzola malissimo; cosicché la cultura è sempre più concepita in funzione del potenziale benessere economico che può derivarne e un laureato può finalmente esibire una sigla prima del proprio nome (Ing., Prof., Dott., Avv. ecc.) quale simbolico riconoscimento dello status sociale raggiunto. Quale mezzo per rivendicare la posizione da occupare nella scala gerarchica sociale. L’onestà, la correttezza, le capacità professionali o imprenditoriali, sono valori solo sulla carta. In realtà imprenditori che operano privilegiando il benessere sociale (i Ford o gli Olivetti, per intenderci) sono una razza ormai estinta, e l’unica ferrea legge della moderna economia mondiale è quella del profitto ad ogni costo. E in questa logica sono pochi quelli che rifiutano la competizione, quelli dotati di una dignità superiore o almeno pari all’ambizione che privilegiano una serenità esistenziale certamente meno “realizzante” ma sicuramente meno stressante, a dimensione umana. Gente che non si preoccupa di dover lasciare ad ogni costo una traccia (quasi sempre negativa) della propria esistenza terrena.
Purtroppo questa rincorsa all’effimero, al volubile (che io definisco gara della stupidità), questa competizione per la “realizzazione personale”, si rivela fatalmente una scelta autolesionista. Una lotta quotidiana spietata e senza regole che impedisce di coltivare gli unici valori che possono garantire la sicurezza di futura tranquillità, vale a dire la famiglia, gli amici, una società più giusta.
Allora mi chiedo: perché il messaggio che quotidianamente ci martella fino all’inverosimile, che ci condiziona l’esistenza col lavaggio del cervello, è quello della competizione esasperata e selvaggia prospettandoci quale premio per i nostri sforzi la precarietà di beni materiali (l’auto, l’abbigliamento firmato, la vacanza esotica, e chi più ne ha…) che prosciugano ogni nostra energia tanto da non lasciarci più vivere? A chi giova tutto questo? La risposta non è molto difficile. Certamente giova al consumismo e a chi lo gestisce, ai “guru” di quest’imprenditoria di manipolatori dell’essere umano che, servendosi dei mass-media e di esperti della comunicazione addestrati ad hoc per ingannare sprovveduti e poveri di spirito, condizionano mode e mercati. Giova ai guru della manipolazione del messaggio mediatico che hanno ben compreso quanto sia facile e redditizio stimolare i desideri per creare i consumi. Questi “guru” hanno ormai preso il sopravvento e si stanno occupando di tutto: della famiglia, dell’educazione dei figli, della scuola, dei divertimenti, dell’amore, della morte, della sanità, della fede e di tutto ciò che fa spettacolo. Anzi, per costoro tutto fa spettacolo. La vita fa spettacolo. La morte, la sofferenza, l’orrore fa spettacolo. Non esiste attività produttiva che non ricorre alla collaborazione dell’esperto di “marketing” e pubblicità. Non si pubblicizzano più solo prodotti, ma le mode e tutto ciò che fa parte dell’umano comportamento. Si creano le tendenze, o il “trend”, per dirla con moderna terminologia imprenditoriale. Ormai non siamo più padroni di noi stessi e pensiamo col cervello di altri. Sono i manipolatori delle coscienze che ti dicono questo va bene (per chi?) e questo va male (ancora, per chi?). Manipolatori che non si accontentano di “suggerire” cosa fare per essere felice, ma si arrogano il diritto di pontificare sul concetto di felicità e di stabilire “cosa” può renderci felici.
Per costoro l’unica etica professionale, l’unica deontologia non scritta ma tacitamente accettata, è in funzione del risultato propagandistico e del conseguente profitto economico. E riescono ad essere talmente convincenti che spesso in una disputa, per chiudere l’argomento, per mettere a tacere l’interlocutore, basta dire: “Lo hanno detto in TV”; certamente nessuno si sognerebbe più di affermare qualcosa che “è scritta nel Vangelo”. Ormai siamo schiavi più o meno consapevoli di questo sistema ma non riusciamo più ad uscirne, e spesso ci sorge il sospetto che alcune cose le facciamo pur di non andare controcorrente, per non sentirci diversi. Lo stesso anticonformismo, un tempo orgoglio e vanto di chi esibiva e difendeva con fierezza la propria personalità e la propria autonomia di pensiero (giusta o sbagliata che fosse) oggi è più che anacronistico, obsoleto, decaduto. Oggi i giovani si sono appiattiti nella stessa ricerca dell’originalità per dimostrare una diversità che finisce per essere quanto di più somigliante, uniforme ed omogeneo si possa concepire. Una ricerca di stravaganza e di eccentricità (“griffata” però da ciò che la moda impone) col risultato di una massificazione ed un conformismo mai riscontrati finora.
In pratica permane il desiderio inconscio di affermare un diritto esistenziale di divina concessione, ma si finisce poi per accettarlo in funzione dell’umano potere. Ci si rende conto di esistere solo perché a qualcuno fa comodo. Una volta l’ultima fase dell’esistenza terrena si compiva naturalmente, in modo sereno, e gli anziani avevano un loro ruolo sociale. Svolgevano nell’ambito della famiglia la funzione di consulenti, di esperti, di tecnici, di grandi saggi, ed erano considerati, rispettati, assistiti. Oggi invece sono relegati a rompiscatole che hanno perso il contatto con la realtà, esclusi dalla competizione esistenziale, trattati con sufficienza e considerati un peso sociale. È dunque questa l’evoluzione sociale e la modernità. Se è così una riflessione è d’obbligo e alcune domande sorgono spontanee: Quale futuro ci aspetta? Che tipo di umanità stiamo modellando per le generazioni future? Che mondo stiamo edificando per i posteri?
Non voglio trarre io le conclusioni, non voglio apparire un nuovo guru manipolatore, ma invito ognuno a riflettere, a fare scelte ponderate. Le mie le ho fatte da tempo. Pace e bene.