LA BIANCA DAMA DELLE PIETRE DI ISANGARDA

Un piccolo sperone roccioso dove soffia lo spirito della brughiera, spazio sacro in cima dove una donna conserva il fuoco acceso. L’uomo si riunisce a tempi fissi scanditi dalle stelle: a febbraio quando il sole riprende la sua corsa, in maggio quando la linfa esplode nei rami, in giugno quando il sole trionfa nella sua pienezza. Allora, e solo allora, da quel piccolo fuoco sempre acceso si prendono i tizzoni per i grandi falò che festeggiano la vittoria della luce, mentre la cantilena delle storie sacre si perde intorno, nella grande selva di querce di Brianco. Ysangarda nasce così, figlia del ricordo di gente antica che è passata sotto le sue pietre, gente che si è fermata vicino alla sua acqua e sulle sue coste leggendo il volo degli uccelli. Poche date scandiscono la sua esistenza. Appare per la prima volta dall’ombra della storia nel 1155, pezzo di terra abitato senza entità e senza chiesa. Confini che si delineano in un tardivo 1473, tra il castello di Cerreto e il territorio di Vigliano, il territorio di Benna, la strada che lega Candelo con il feudo dei Biandrate di Montebelluardo e quella che la lega a Candelo, con il rivo che lambisce le sue coste fino al monte che dà il nome al territorio, là dove c’è il forno distrutto. Nel 1390 vengono ampliate le sue fortificazioni, palacium e castrum, fondate da mani lontane prima dei fatti che contrappongono i suoi signori, i Vialardi, ad Amedeo VIII. Sul bel volto di Ysangarda si addensano eventi gravi, meno di cent’anni, ma densi per l’assetto feudale della regione. L’appoggio dato dai suoi signori a Facino Cane, le scorrerie contro gli Avogadro di Quaregna, l’episodio del 1401 mutano i precari equilibri territoriali che si concludono drammaticamente più lontano e più tardi, nella battaglia di Sandigliano del 1426, quando cade il castello del Torrione, sconfitta definitiva dei Vialardi. Le truppe del duca di Savoia sono forti e ben equipaggiate: il Vaud da solo impegna 41 lance, circa quattrocento tra cavalieri e fanti, però Aimone di Châteauvieil preferisce non spingersi fino a Isangarda, pericolosa da raggiungere, inutile come battaglia, troppo distante dagli accampamenti di Ivrea. La bella dama esce indenne, come in fondo anche nel 1404 quando, ferita ma non arresa, è costretta a patire l’assalto vendicativo degli Avogadro appena passati sotto le insegne di Amedeo VIII. Ma la battaglia di Sandigliano conclude anche la sua esistenza storica: sotto le mura del castello del Torcile e coraggioso delle piazze militari minori, dongione e cavaliere antico affiancati ancora una volta: l’ultimo atto, perdente. Ceduta a Candelo nel 1433 dal suo ultimo signore, Paramidesio Vialardi, i resti delle sue abitazioni rapidamente abbandonati e l’ormai inutile insieme difensivo spariscono e si consumano in una cava inesauribile per le abitazioni limitrofe. Ysangarda rientra nelle pieghe della storia.
Il suo volto torna a sorridere. Riprende la sua corsa lieve, sfumata e misteriosa, nella brughiera del lupo e del bandito, tra lo zoccolo di cavalli lontani e i coltelli degli assassini annidati nella selva di Brianco, ora più piccola e senza querce. Ritorna, maschera di carnevale silente su terra arida e mossa, la dama di Sangarda, memoria della sua origine sacra. L’accompagnano leggende sparse e brandelli di storia, la fiera certezza di non essere mai appartenuta a nessuno: tutta gente di passaggio, dai Vialardi che hanno marcato la sua esistenza, a chi è venuto prima, a quelli che le sono passati a fianco senza vederla. Si sono fermati intorno alla sua acqua e hanno superato il suo guado i Liguri, i Celti, poi quei piccoli gruppi del nord dell’Europa affamati di terra, le cui fiabe si perdono gli etimi della baraggia. Forse anche Ysangarda di Montboissier in nel suo viaggio Italia sul finire del mille, si è affacciata sulle sue pietre, alla ricerca della terra su cui fondare un monastero, lasciando il ricordo del suo nome. Altri uomini sono tornati, distruttori e ladri.
Le piante sono cresciute sui suoi resti di mura costruite su altre mura, mattoni color delle pietre, pietre rosse come il mattone. Il tempo ha marcato il suo volto, ma la sua leggenda Ysangarda la porta con sé, fiera, scandendo con il suo nome le cose e i sentieri, ossessiva nella sua imprendibilità, sepolta dal tempo, lui memore di lei. Tomaso Vialardi di Sandigliano

LA COMUNITA’ DI CANDELO E SEBASTIANO FERRERO

Se si è letta la biografia di Sebastiano Ferrero (1483 – 1519) non si può fare a meno di ammirare l’attività di quest’uomo che, al servizio sia del Duca di Savoia che del Re di Francia, si segnalò come valoroso soldato ed acuto finanziere nei vari compiti che gli vennero nel tempo affidati. Numerosissime furono le comunità che gli si dedicarono senza che egli avesse fatto nulla perché ciò accadesse; in altri casi fu invece Sebastiano stesso a sollecitarne la sottomissione per assicurare alla propria famiglia un sempre maggiore numero di possedimenti. Dal padre Besso aveva ereditato alcuni feudi, ad essi egli stesso aggiunse nel Biellese quelli di Gaglianico, Candelo, Benna, Zumaglia, Sandigliano ed altri in altre parti del Ducato sabaudo. A tal proposito particolarmente interessante è una lite sorta tra il Ferrero e la comunità di Candelo per il Ricetto e alcuni diritti di signoria da lui vantati. Il Comune di Candelo apparteneva al Capitanato di Santhià e con questo aveva in comune gli Statuti; nel 1387 esso venne infeudato dal Duca di Savoia a Girardo Fontana per i lodevoli servizi che quest’ultimo aveva reso al padre del Duca. Nel documento di sottomissione sono contenute le formule consuetudinarie e l’ordine agli esattori di non riscuotere più i redditi, perché la popolazione li avrebbe devoluti al feudatario. I redditi consistevano in 100 fiorini d’oro che i 75 fuochi (famiglie) dovevano versare; infatti dai conti effettuati nel periodo in cui la Comunità era alle dipendenze della Castellania di Santhià si desumono 72 nomi di famiglie (Andrea Cagna, Giovanni Scanzio, Giovanni de Ugazio, Antonio Ferraro, Antonio Scarella, Pietro Pessa, Martino de Pozzo,…). Col passare del tempo e l’avvicendarsi di vari feudatari, anche la popolazione di Candelo era variata di numero, passando da 75 a 140 fuochi, ma, nonostante ciò, era riuscita a non aumentare la quantità di fiorini da dare al nobile Fontana. Sebastiano Ferrero, dopo aver acquistato il feudo di Benna (1479), volse i suoi interessi verso Candelo ed iniziò quell’opera di accaparramento che lo portò a scontrarsi con la popolazione candelese. Nel 1489 ottenne dai Fontana la metà di Candelo con la successiva approvazione del Duca di Savoia; pochi anni dopo si fece costruire in Ricetto una casa, e ottenne anche l’altra metà del Castello, e la giurisdizione e i redditi di Gaspare Fontana. Dopo aver ottenuto tutto il feudo, Sebastiano iniziò a richiedere il riconoscimento di una serie di diritti come legittimo successore di quanti avevano avuto per anni ed anni in feudo il Comune; la comunità però era troppo gelosa dei suoi antichi privilegi, ottenuti con i sacrifici della sua gente, per cedere alle richieste.
Il Ferrero pretendeva:
a) Il versamento annuo ed in perpetuo di un ducato per famiglia
b) il mulino di Candelo
c) i diritti sul Ricetto ed anche un censo annuale di 21 ducati
d) che il Consiglio si riunisse solo in sua presenza nominasse notai o consiglieri
e) infine la chiave del Ricetto, la riscossione delle multe e dei bandi campestri

La popolazione non si spaventò, ritenendo del tutto assurde le pretese del Signore. Essa inoltre in grado di documentare come avesse acquistato il terreno e costruito col proprio denaro il Ricetto, prima della dedizione a Casa Savoia e di ribattere alle richieste di Sebastiano Ferreo. La causa fu quindi portata davanti al Consiglio Ducale, dove il Signore di Bardazzano propose alle parti di nominare due arbitri, la cui sentenza doveva essere legge per entrambe le parti. Candelo nominò suoi rappresentanti i signori Comino Scarella, Bartolomeo Scaramutia, Fabiano del Pozzo, Stefano Baja, Giovanni Durando e Giacomo del Pozzo; come arbitri, d’accordo con il Ferrero, il Reverendo Fabiano De Baj e lo stesso Antonio De Sumonte, Signore di Bardazzano. Passò una settimana e il “lodo” venne pronunciato. Essi, presa visione dei documenti, ascoltate le testimonianze, fatte le opportune indagini, si pronunciarono a favore della Comunità di Candelo, obbligandola solamente a versare ogni anno 100 ducati d’oro a Sebastiano e ai suoi successori. Respinsero invece tutte le altre richieste del Ferrero, riconoscendo alla Comunità il diritto di proprietà del Ricetto e di quant’altro preteso dal principe, imponendo a quest’ultimo di pagare le tasse per le terre acquistate nel comune, permettendogli però di mantenere la casa all’interno del Ricetto. La vertenza terminò quindi a favore dei Candelesi, che seppero sempre tener testa alle pretese dei signori, finchè non poterono liberarsene.
(da A. Roccavilla,…..) “La Rivista Biellese” – 1927

Le maschere

Il Carnevale è presente nella tradizione candelese con la leggenda del Toulun e le sue maschere tipiche. Nel passato era un momento di aggregazione importante perché i giovani, durante i mesi freddi, si trovavano nelle stalle per preparare i carri e i costumi. Era un modo per stare insieme e per divertirsi con poco.

A Candelo vi sono due maschere tipiche: il Tulun che rappresenta le origini contadine e, secondo una leggenda, si collega all’origine del paese di Candelo mediante il tutolo della pannocchia. Il Tulun rappresenta perciò il popolo di Candelo che viveva del lavoro dei campi. Le altre due maschere, il conte e la contessa d’Ysangarda, affondano le loro radici nella storia e precisamente ricordano i signori d’Ysangarda che vivevano in una rocca fortificata, poi distrutta nel 1400, ai limiti della Baraggia, su un’altura prospiciente la zona circostante. Mentre il Tulun ricorda le origini popolari, il conte e la contessa si rifanno alla nobiltà del luogo e al suo rapporto con il contado.


Villa Schneider Villa Schneider Villa Schneideri

13 febbraio 2004 - Comune di Candelo

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