Città
di Biella
Assessorato alla Cultura
Spazio della memoria
Villa Schneider
Villa
Schneider deve il suo nome al fatto di essere appartenuta a Daniele Schneider,
un industriale laniero francese, nato a Mulhouse, in Alsazia, il 27 settembre
1868, figlio unico di una modesta famiglia. Fu operaio meccanico, ma grazie
alle sue qualità d'imprenditore ascenderà presto ai vertici europei
dell'industria tessile laniera, ricoprendo posti di responsabilità e
di direzione molto importanti.
Iniziò a lavorare presso la "Societé Alsacienne constructions
mécaniques" e poi giunse a Biella nel 1900, quando i Sella cercavano
un direttore per la filatura di Tollegno, dove egli ricoprirà il ruolo
dirigenziale fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Sotto la
sua direzione la Filatura di Tollegno divenne non solo un grande centro industriale,
ma anche una sorta di modello di gestione paternalistica della manodopera, fatta
giungere dal Veneto e sistemata nelle case popolari del Villaggio operaio, con
tanto di cooperativa, di asili e di spazi dedicati alle attività sportive.
I dipendenti dicevano di lui, nel nostro dialetto, "L'è dur,
ma l'è giust": era un uomo risoluto, coraggioso, rigoroso
e puntuale. Riguardo a quest'ultima caratteristica, il nipote Edoardo Gaia ha
raccontato un simpatico aneddoto: un giorno la figlia gli aveva chiesto di poter
andare con lui a Torino; Daniele accettò fissando la partenza alle ore
8 del mattino, ma la figlia arrivò appena in tempo per vedere che, passata
da poco l'ora stabilita, la macchina del padre si stava allontanando, non per
fare il giro dell'isolato e per caricarla successivamente, ma per dirigersi
a Torino senza di lei.
Era una persona speciale, onesto sino all'ossessione e ligio ai suoi doveri,
rigoroso persino con il suo corpo, se pensiamo, come racconta il nipote, che
anche negli ultimi anni della sua vita faceva il bagno con acqua gelata anche
a gennaio.
Daniele comprò la villa dalla vedova e dai figli di Sebastiano Protto
nel 1919. Nella casa visse con la sua famiglia composta dalla signora Rosita
(o Rosetta) Torrione e dai figli Giovanni (nato a Valdagno), Paolo Roberto (nato
a Biella), Alice (nata a Mulhouse e sposata Sella) e Maria Luisa (nata a Tollegno
e sposata Gaia).
Dopo l'8
settembre 1943 i Tedeschi lo costrinsero a cedere loro la casa di Piazza Lamarmora,
all'epoca Piazza Cossato, per installarvi il comando della Polizia Militare.
Egli si allontanò da Biella e ritornò in Francia. Non sono assolutamente
fondate le voci secondo cui, essendo egli alsaziano, da buon patriota, avrebbe
"ospitato" le S.S. nella propria villa. Il nipote ci ha raccontato
che suo nonno, nato nell'Alsazia francofona, preferiva farsi chiamare "Schnedèr",
alla francese, ma riusciva ad essere sereno nei giudizi riguardo ai Tedeschi
perché non li disprezzava.
La
villa
Un verbale del Consiglio Edilizio dell'11 agosto 1898 riunitosi sotto la
presidenza del cav. Corradino Sella documenta l'approvazione della richiesta
avanzata il 2 giugno 1898 da Sebastiano Protto per costruire una "palazzina
avente la fronte di mezzodì sulla piazza Alessandro Lamarmora e in angolo
alle vie Pietro Micca e via XX settembre", una zona della città
che proprio in quegli anni stava rapidamente urbanizzandosi.
Il 18 novembre 1919 Daniele Schneider acquista la casa al prezzo di 120 mila
lire.
Il 16 marzo 1932 i figli di Daniele Schneider accettano la donazione paterna
della villa fatta con atto del 22 gennaio 1932. In data 27 settembre 1948 i
fratelli Schneider cedono la proprietà della casa al fratello Paolo Roberto,
che l'acquista al prezzo di 1 milione e 50 mila lire.
Infine, dopo che per anni la villa è rimasta disabitata, la proprietà
passa al Comune di Biella nel gennaio 1973 comperando lo stabile al prezzo di
60 milioni di lire per destinarlo ad attività culturali o assistenziali.
Cos'é
successo a Villa Schneider?
Dopo la Liberazione, in seguito a denunce e segnalazioni da parte di privati,
vennnero svolte le prime indagini dal Commissariato di P.S. di Biella in merito
alle attività del reparto di SS germaniche e italiane che si era installato
a Villa Schneider nel settembre 1943 e vi era rimasto per tutti i venti mesi
di occupazione tedesca.
Veniva
così accertato che quel reparto aveva commesso numerose azioni delittuose
ai danni di partigiani, loro familiari o persone sospettate di collaborare con
i partigiani: omicidi, persecuzioni, fermi, depredazioni, devastazioni, arresti,
interrogatori, violenze e sevizie contro persone arrestate e trattenute giorni
e anche settimane negli scantinati bui della villa diventati luoghi dell'orrore.
Il presidio di Villa Schneider era composto da un ufficiale tedesco che lo comandava,
da due sottufficiali tedeschi e da 7 elementi italiani.
I militari germanici appartenevano alle SS e il presidio dipendeva dal comando
delle SS di Torino che aveva sede presso l'albergo Nazionale. Durante i venti
mesi di lotta partigiana a Biella vi era anche un comando dell'esercito tedesco
ma non aveva che limitati poteri in materia di polizia politica e scarsa autorità
nei confronti del presidio di Villa Schneider, tanto che a quel tempo, scrivono
i giudici della Corte Straordinaria d'Assise di Vercelli nell'introduzione alla
sentenza del 10 ottobre 1946, era noto il contrasto fra il maggiore comandante
della piazza e il comandante del presidio di Villa Schneider. I militari italiani
aggregati al reparto tedesco erano tutti volontari ed erano, al pari dei tedeschi,
fanatici del regime nazista.
Il presidio della Villa Schneider era dunque un nucleo scelto che aveva compito
di polizia politica e di lotta antipartigiana.
Gli elementi italiani erano naturalmente alle dipendenze dei tedeschi: le pratiche
riguardanti gli italiani venivano però trattate dagli ufficiali italiani
del presidio, dopo aver preso accordi con i tedeschi. Ai
giudici del processo svoltosi a Vercelli nel 1946 rimase la convinzione che
quello che era emerso dal dibattimento e dalle prove raccolte era da considerarsi
solo una parte di quanto avevano fatto i componenti del presidio della villa
e che dunque molte delle responsabilità in merito ad altri fatti criminali
non potevano essere accertate.
Per cercare di
ricostruire la natura delle sevizie a cui venivano sottoposti i partigiani e
i loro collaboratori all'interno di Villa Schneider, disponiamo di due fonti:
le sentenze, in particolare quella della Sezione Speciale della Corte d'Assise
di Vercelli datata 10 ottobre 1946 e quella della Corte d'Assise di Torino del
6 dicembre 1949, e le testimonianze raccolte dal giornale "Baita".
Nelle sentenze i nomi che spiccano per efferatezza nell'infliggere percosse
e sevizie sono quelli degli italiani che appartenevano alle SS .... accusati,
a diversi livelli di responsabilità, di aver "sottoposto a maltrattamenti"
gli arrestati e di aver loro provocato delle lesioni. ... Le SS italiane sono
inoltre accusate di aver in svariate occasioni percosso e seviziato partigiani
e loro collaboratori. Le testimonianze raccolte dal giornale "Baita"
raccontano di molte tipologie di sevizie.
Oltre che dalle SS tedesche e italiane, Villa Schneider era frequentata da militi fascisti, soldati tedeschi, personale italiano che lavorava al servizio del presidio, donne che intrattenevano rapporti intimi con i militi italiani o tedeschi. A volte non è facile distinguere tra lavoro stipendiato e collaborazionismo volontario e complice. Ne sono esempio i casi di due donne che dopo la Liberazione hanno subito processi per collaborazionismo perché implicate in qualche modo nei fatti di cui questa villa è stata teatro.
Un caso:
Antonio Aldo Ottella
Il 12 luglio 1944 Antonio Aldo Ottella fu arrestato a Graglia, insieme a
numerose altre persone, come rappresaglia al prelievo da parte dei partigiani
dei componenti della famiglia di un certo Botta, fascista repubblicano. Tenuto
come ostaggio a Villa Schneider per circa una settimana, durante la quale la
sorella andò a visitarlo, fu sottoposto a interrogatori e sevizie fino
a che il 18 luglio, mentre gli altri arrestati venivano liberati, fu portato
a Graglia e ucciso nei pressi del Santuario.
Aveva all'epoca 44 anni ed era titolare della tabaccheria di Graglia, cui "si
rifornivano" i partigiani, mettendogli sotto la serranda del negozio la
lista di quanto poi sarebbero passati a prendere. Difficile dire se la sua fosse
una collaborazione spontanea e sentita o piuttosto imposta dalle circostanze
e dalla pressione partigiana. Ma questo ai nazifascisti probabilmente importava
poco, o comunque si convinsero che Antonio Aldo Ottella era un fiancheggiatore
attivo del movimento partigiano.
I
giornali
A partire dal 1945 le vicende di Villa Schneider furono trattate con maggiore
o minore interesse dai giornali locali Baita e Il Biellese. Nel
giugno del 1945 compaiono i primi articoli su Il Biellese, in cui si
annuncia l'inizio dei processi nei confronti di alcuni implicati nelle atroci
vicende della villa: si forniscono i nomi degli imputati e l'elenco delle date
in cui si terranno i processi davanti alla Corte d'Assise Straordinaria. Si
dice che i processi avrebbero avuto luogo a partire da martedì 19 giugno
e che 50 cittadini biellesi erano stati scelti come giurati.
Il 22 giugno compare l'articolo che tratta di un imputato, dove si elencano
i reati commessi, tra i quali rastrellamenti nel Biellese, partecipazione a
sevizie contro detenuti politici e la fucilazione di tre partigiani a Vercelli.
Il testo si conclude sottolineando che "la folla ha tentato prima e
dopo le udienze di linciare l'imputato, ma per l'ottimo servizio d'ordine non
ha potuto colpirlo".
Il caso suscitò notevole interesse oltre che per i terribili reati commessi
perchè l'imputato sarà condannato a morte e la pena sarà
eseguita proprio a Biella. Il 29 ottobre compare su Baita l'articolo
che annuncia l'avvenuta esecuzione: "...Sabato
27 u.s. nei pressi del cimitero di Biella, è stato giustiziato P. G.
Su questo terribile e sadico sgherro fascista, prima delle SS tedesche a Biella
e poi dell'U.P.I. di Vercelli, gravano moltissime accuse della massima gravità.
Aveva egli infatti partecipato con spirito veramente fanatico a rastrellamenti
nell'Aostano, nel Canavesano e nell'Astigiano, vantandosi di aver bruciato interi
paesi. Era sempre il primo negli interrogatori a scagliarsi con mezzi coercitivi
contro le vittime.
Meno enfatico è il modo con cui la vicenda è seguita sulle pagine de Il Biellese. Il giornale dà conto dello svolgersi dei processi senza fornire molti dettagli. Si preferisce dare maggior rilievo all'eccidio di piazza Quintino Sella: "Trattasi dell'episodio più tragico di cui fu testimone la popolazione della città di Biella, il massacro dei ventun partigiani catturati in quel di Torrazzo e Sala e fucilati, cinque a cinque, sulla piazza Quintino Sella (ora piazza Martiri della Libertà) e lasciati esposti a volgarità e menzogne"
I testimoni:
Giovanni Gremmo
D. Potrebbe raccontarci un'esperienza relativa alla guerra partigiana
da lei combattuta, con particolare riferimento alla pratica dello scambio di
prigionieri?
R. Eravamo in una cascina nei pressi di Massazza, a pochi Km da Biella. Eravamo come le vespe in attesa di pizzicare qualcosa o qualcuno. Un mattino eravamo in sei e vedemmo arrivare da Massazza un autoblindo con dietro, a 100-200 metri, un'automobile nera. Era evidente che l'autoblindo proteggeva l'automobile, gli occupanti dell'automobile. Il problema era che noi eravamo solo in sei, armati con un mitragliatore e qualche bomba a mano, mentre l'autoblindo aveva una mitragliera da 8 mm e avrebbe potuto crearci dei problemi non indifferenti. Quando l'autoblindo è arrivato alla nostra altezza noi abbiamo tirato sull'autoblindo che avrebbe dovuto fermarsi a proteggere l'automobile. Ma non lo fece e con nostra gran sorpresa si allontanò mentre noi continuavamo a tirare raffiche con il mitragliatore. Poi arrivò la macchina che seguiva. Era un bersaglio facile da colpire, un gioco da bambini: fu colpita alle ruote della fiancata sinistra e uscì di strada, coricandosi nel fossato. Io avevo paura che l'autoblindo tornasse e se tornava era ancora in una posizione migliore e ci avrebbe preso d'infilata. Noi ci aspettavamo che gli occupanti della macchina uscissero e si arrendessero ma non lo fecero, allora abbiamo tirato due bombe a mano e poi ci siamo avvicinati.
Dentro l'automobile c'erano tre tedeschi: l'autista, Giorgio (che per noi fu poi l'uomo chiave) e una terza persona, un colonnello, che era rimasto ferito da una pallottola che lo aveva passato da guancia a guancia. Quello che non volevano fare era uscire e arrendersi perché nessuno voleva essere il primo a cedere perché loro erano "i duri"; aspettavano che uscisse il colonnello, ma il colonnello era malmesso e un po' intontito, quindi c'è stato un momento di attesa, diciamo quattro o cinque minuti, che furono eterni in quella situazione. Allora io scesi nel fossato, aprii la porta dalla parte dell'autista e lo tirai fuori, lui era incolume; di fianco all'autista c'era Giorgio che, per lo spostamento d'aria causato dallo scoppio delle bombe a mano aveva avuto lesionato sicuramente un nervo ottico. Poi c'era il colonnello e quando vennero fuori gli altri due, lui non usciva ancora. Aprii la porta del sedile posteriore e vidi che era ferito più o meno gravemente (io non ero in condizione di valutare la ferita) e lo tirai fuori. Mi ricordo che lo presi per la cinghia dei pantaloni: era armato di pistola e mitra; aveva la pistola anche l'autista e Giorgio un mitra. Quando furono tutti e tre fuori dall'automobile e disarmati c'era il problema di allontanarsi dalla strada. Andammo alla cascina con questi tre pellegrini e, ovviamente avevamo paura perché eravamo sempre solo in sei e avevamo in ostaggio il colonnello, un ufficiale che non sapevamo ancora chi era ma capivamo che era qualcuno che contava. Quando avevo disarmato il colonnello del mitra Beretta che non aveva sparato un colpo (aveva sei caricatori pieni), lui tirò fuori dalla tasca posteriore un portasigarette d'oro e me lo porse come per rabbonirci, ma io non lo presi e a spintoni li portammo sulla strada.
Per regolamento i cambi dovevano essere fatti tra un comando di divisioni, però avendo per le mani un colonnello ferito, se moriva era tutto finito e loro sarebbero stati capaci, per rappresaglia, di bruciare Massazza.
D. Voi com'eravate organizzati?
R. Noi eravamo stanziati sulla Garella, dove c'è la baraggia di Masserano; lì era il nostro territorio. Il 26 di dicembre 1944 c'era stato un grosso lancio che ci aveva permesso di essere bene armati. Ci sentivamo molto sicuri e non c'era più nessuno che ci teneva a freno. Ad ogni modo io dovevo fare questo cambio perché ci rendevamo conto di rischiare di lì a poche ore di vedere arrivare ingenti forze: l'autoblindo era andato via ma aveva certo capito quello che era successo. Comunque andai in cascina e quando entrai il colonnello - che era in uno stato pietoso anche moralmente, lo potevi vendere per due centesimi - parlò con Giorgio e gli disse di propormi che se avessi fatto il cambio subito lui garantiva che a Massazza non ci sarebbero state rappresaglie e lo giurò su Hitler. Giorgio tradusse in italiano la sua proposta. Io mandai a chiamare il parroco di Massazza che prese un calesse. Salimmo io, il parroco, Giorgio e Ferro, un mio compagno. Partimmo col calesse e andammo a Biella. Io e il mio collega eravamo armati. Arrivammo fino a dove c'è la rotonda in fondo a Via Torino dove c'era un posto di blocco. Quando da lontano ci videro arrivare armati arrivarono tutti fuori col mitra e allora Giorgio si mise ad urlare e i tedeschi abbassarono le armi. Ci dissero che per fare il cambio loro dovevano avvertire la Wehrmacht, perché il territorio era sotto il controllo non delle SS ma dell'esercito tedesco che aveva il comando dove adesso c'è l'hotel Principe. Arrivammo lì e in cinque minuti ci diedero l'autorizzazione a fare il cambio. Da lì andammo a Villa Schneider, dove io congedai il parroco che ci aveva accompagnati. Arrivammo a Villa Schneider e io la vidi brutta e fredda. Dentro ci faceva strada Giorgio, seguito da me e dal mio compagno. Da un ufficio venne fuori un capitano delle SS che mi guardò. Io sostenni il suo sguardo: le SS erano abituate a guardare le altre persone come esseri inferiori e quindi gli altri dovevano abbassare lo sguardo. Dissi a Giorgio che bisognava fare presto e quindi di tirare fuori gli elenchi dei prigionieri. Sempre con molta durezza il capitano cominciò a dire che i prigionieri da cambiare dovevano sceglierli loro. Io invece ribadii che volevo vedere l'elenco perché magari ne conoscevo anche qualcuno. Nell'elenco ce n'erano 200 e io riuscii a concordare la liberazione di 33 detenuti al Piazzo. Mentre io parlavo e discutevo con il capitano, un altro ufficiale prese il mio compagno e cercò di farlo parlare, facendolo sentire ai microfoni di Radio Baita - Villa Schneider aveva messo in funzione una radio che si chiamava appunto Radio Baita che non sembrava una radio fascista perché era camuffata. Lui ci cadde proprio come un pulcino e gli hanno fatto dire quello che volevano che dicesse. Il capitano con me era duro ma capiva di dover essere anche un po' accomodante: un po' faceva il duro e un po' mi offriva le sigarette e il cognac ma io non ho accettato niente. Ogni tanto io mi alzavo per facevo un giro per la villa per rendermi conto della situazione. C'erano delle stanze veramente spaventose: i muri erano sporchi di sangue e da quel momento io giurai che vivo non mi avrebbero mai preso perché da lì non si usciva ben messo. Quando finimmo di concordare la lista dei prigionieri da scambiare uscii da lì con il mio compagno e Giorgio. Fuori c'erano due camion guidati da una pattuglia di Brigate Nere perché con i quali saremmo andati su al Piazzo a prendere i prigionieri. D.
Ma la gente cosa sapeva di Villa Schneider?
I testimoni: Carlo Cantone
D: Lei era un
partigiano?
Carlo
Cantone: Sì, ero un partigiano, comandante di un distaccamento della
seconda brigata Garibaldi. Il mio nome di battaglia era "Studente".
Fui catturato dopo un combattimento a Riabella, nel gennaio 1945, e fui portato
a Villa Schneider.
D: Quale immagine
avevate di Villa Schneider, lei e i suoi compagni, prima di essere catturati?
Avevamo una grande paura, poiché sapevamo che chiunque entrava lì
veniva ucciso, torturato e ucciso. Io, per fortuna, fui liberato grazie ad uno
scambio con dei marescialli tedeschi.
D: Quando arrivarono
i tedeschi a Biella?
Dopo
l'8 settembre, dopo il tracollo del fascismo. I tedeschi non scherzavano mica.
Erano dei guerrieri molto violenti
D: E' stato
oggetto o testimone di qualche atto di violenza perpetrato dalle SS di Villa
Schneider?
No, non
mi viene in mente niente di particolare, se non le intimidazioni, le minacce.
Ricordo solo che gridavano, strillavano; probabilmente non infierivano più
come nei primi tempi perché io fui catturato quando la guerra sembrava
ormai persa per i tedeschi.
D: Fu sottoposto
ad un interrogatorio una volta arrivato a Villa Schneider?
Sì,
per due o tre giorni di seguito. Fu un interrogatorio molto pesante psicologicamente,
però non venni picchiato. Fui picchiato solo a Riabella, quando mi catturarono.
E dopo nove giorni venni liberato.
D: Cosa si ricorda
della villa, di quello che ha visto quando è stato portato lì?
Mi ricordo
di aver ascoltato della bella musica. C'era la radio accesa ed io ero un incosciente.
C'era quell'ampia terrazza, quelle finestre alte e c'era il capitano, il comandante
delle SS tedesche in Biella. Ho parlato poi a Radio Baita. Fui costretto a leggere
un messaggio, indirizzato a mio padre, che lo informava della mia cattura.
D: Secondo lei,
perché i tedeschi le fecero leggere questo documento per radio?
Per
farsi propaganda. Bisogna essere incoscienti per dire ciò che ho detto
io.
D: Immagino
che lei non avesse altra scelta. Se non l'avesse letto sarebbe stato ucciso.
Forse mi avrebbero ucciso comunque. Non mi hanno ucciso perché volevano
i due marescialli che i partigiani avevano catturato.
D: C'erano anche
dei partigiani stranieri che combattevano con voi?
Sì, c'era un partigiano russo, poi c'erano tanti inglesi e neozelandesi.
D: Da dove venivano
tutti questi partigiani stranieri?
Dopo
l'8 settembre, coloro che erano rimasti qui, essendo cittadini inglesi, si unirono
ai partigiani sulle montagne e condussero una lotta in comune.
D: Avete avuto
contatti, quindi, anche con le forze alleate.
Sì, ci fu
una missione, chiamata in codice Cherokee, durante la quale vennero paracadutati
molti soldati oltre a cibo e armi, come i mitra Sten. Io partecipai alla segnalazione
della zona di lancio per i paracadutisti.
D:
Conosce altre persone che sono uscite vive da Villa Schneider?
So solo dei sei che sono stati liberati con me.
D: Cos'è
successo ai suoi compagni che sono stati liberati con lei?
Uno è stato ucciso poco tempo dopo, dietro al cimitero di Biella. Degli
altri non so molto. Eravamo a migliaia sulle montagne.
D: Lei ha mai
sentito parlare di altri posti come Villa Schneider?
No, da noi tutti
i prigionieri politici andavano a finire lì.
D: Ha mai notato
delle inimicizie tra gli ufficiali tedeschi o tra i tedeschi e gli italiani?
Non
era possibile rendersi conto di quanto avveniva attorno a noi. Ogni volta che
mi portavano alla loro presenza ero costretto a stare per ore in piedi con la
faccia contro il muro e non potevo girare la testa. In questo modo erano sicuri
che io non potessi vedere nulla.
D: Dove eravate
detenuti, lei e i suoi compagni?
Alle prigioni del Piazzo. Tutti i giorni ci facevano andare dal Piazzo alla
villa per interrogarci.
D: Il percorso
dal Piazzo a villa Schneider lo facevate a piedi o vi ci portavano con il camion?
A piedi con due militari ai fianchi.
D: Ogni volta
c'era qualcuno che non tornava?
Non tutte le volte, ma la maggior parte sì.
D: Dove finivano
tutti questi morti? Dove venivano portati i cadaveri?
Finivano dietro al cimitero di Biella, dove c'era una specie di tiro a segno.
I parenti, poi, venivano a prenderli.
D: Quindi i
tedeschi permettevano ai parenti di seppellire i propri defunti.
Sì, i tedeschi sì.
D: I prigionieri
feriti durante gli scontri venivano portati per caso all'ospedale?
Si, alcuni dei miei compagni, catturati con me, furono portati lì. Ma
da allora non li ho più rivisti.
D: L'ospedale
era sotto il controllo fascista?
Tutto era sotto il loro controllo.
Estratto
dall'opuscolo della mostra "Spazio alla memoria", voluta e finanziata
dall’Assessorato alla cultura della Città di Biella, frutto della ricerca svolta
nell’anno scolastico 2001-2002 dagli studenti della Consulta provinciale studentesca:
Elena Boin, Nora Bourkab, Andrea Crestani, Simone Davì, Chiara Donato, Irene
Finiguerra, Giulio Gruppo, Michele Lancione, Paola Lualdi, Maurizio Marzola,
Anna Trerè, Beppe Venturu coordinati da Bruno Pozzato e Marcello Vaudano in
collaborazione con Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea
nelle province di Biella e Vercelli e di Torino
La mostra (inaugurata nel 2002) è PERMANENTE
chiunque voglia visitarla può contattare l'assessorato alla cultura del
Comune di Biella
culturaweb@rc.comune.biella.it
testo inserito
in www.biellaclub.it il 15/01/2003
fotografie di Stefania Nardi