Biellesi nel mondo

I CERCATORI DI FORTUNA

Prima i boscaioli, gli scalpellini, gli artigiani. Poi tessitori, capi mastri, piccoli imprenditori. A migliaia, dalla metà dell'800, i biellesi lasciarono le loro valli per andare a costruire strade, ponti o ferrovie in tutti i continenti. Ecco le loro storie e i loro itinerari ricostruiti da una grande ricerca storica.

di Valerio Castronovo

"La nostra condizione qui a Parigi è orribile. Noi siamo disonorati ed avviliti, tanto che c'è duopo stare nascosti." Così scriveva alla madre il giovane Quintino Sella nel marzo 1849, alla vigilia della battaglia della "fatal Novara", che decise le sorti della prima guerra d'indipendenza. Non poteva sopportare i dileggi dei suoi compagni di corso all'Ecole des rnines, che gli chiedevano perché non fosse accorso in Piemonte a fare il suo dovere nelle fila dell'esercito di Carlo Alberto. Proprio lui che a Parigi un anno prima, nel febbraio 1848, s'era mischiato alla folla scesa in piazza contro la monarchia di Luigi Filippo ("fui in prima linea negli episodi più importanti", ricorderà più tardi, "talmente che quando il popolo entrò alle Tuilerìes ce n'erano appena settanta prima di me") e che, tornato in patria, avrebbe voluto arruolarsi Volontario contro gli austriaci troncando gli studi, se il governo subalpino non lo avesse rispedito indietro per ordine perentorio del ministro Des Ambrois: "Vogliamo delle teste, non braccia". A rigore, la vicenda di Quintino sella (che da Parigi si sarebbe spostato successivamente a Londra e poi ancora in alcune università tedesche per perfezionare i suoi studi di matematica e geometria applicata) non ha nulla a che vedere con le peregrinazioni di tanti suoi conterranei che si recavano in Francia e in altri Paesi d'Europa, risiedendovi per qualche tempo, in cerca di lavoro e di fortuna. Tuttavia l'esperienza di Quintino (come quella di altri rampolli della buona borghesia biellese, che usavano compiere fuori d'Italia parte del loro tirocinio professionale o del loro noviziato in fabbrica) si iscrive anch'essa con quel vasto intreccio di rapporti che legava da tempo il Piemonte con alcune contrade al di là delle Alpi. Rapporti frequenti e in certo qual modo familiari, che non si limitavano semplicemente allo scambio di merci, ma che si estendevano pure alla circolazione di uomini e di idee, a flussi tali da coinvolgere differenti strati della società subalpina. Questo intreccio di relazioni valeva in particolare per il Biellese, in condizione di comunicare agevolmente tanto con i Grigioni e il Vallese quanto con l'Alta Savoia e con i primi contrafforti del Delfinato. Fin dal sei-settecento per guadagnare qualche soldo, boscaioli e artigiani scendevano in buon numero, durante alcuni periodi dell'anno, dall'altra parte della catena alpina. Successivamente, durante il dominio napoleonico molti furono i muratori e scalpellini biellesi impiegati nei lavori delle grandi strade del Moncenisio, del Monginevro e del Sempione, alle dipendenze di alcuni impresari loro compaesani (primi, fra tutti, i fratelli Rosazza, originari dell'alta Val Cervo). L'emigrazione stagionale era il risultato di un complesso gioco di equilibri fra la coltivazione dei campi o la pastorizia, da una parte, e l'esercizio di pratiche artigianali e manifatturiere dall'altra. A metà dell'ottocento si stimava che circa tremila persone prendessero le vie dell'estero e di altre province dello stato sabaudo tornando ai paesi d'origine "con notevoli risparmi", pari al reddito netto che ricavavano i proprietari da tutto il suolo del circondano. Il fenomeno migratorio si presenta, perciò, nel biellese (come in qualche altra zona delle Prealpi) con caratteristiche sue proprie, differenti dal quadro d'insieme dell'emigrazione italiana. In questo caso non agirono alcuni fattori d'espulsione per così dire classici: né la proletarizzazione dei piccoli coltivatori contadini in seguito alla concentrazione della proprietà fondiaria, e neppure l'erosione dei loro guadagni da parte di speculatori o intermediari. Sia pur con parecchie difficoltà, i piccoli possidenti agricoli nella parte collinare coltivata a vite riuscirono a sopravvivere (anche negli anni più critici come quelli fra il 1870 e il 1880) sia alla diminuzione dei prezzi, sia ai periodici assalti della fillossera. Nel circondano biellese commissari dell'inchiesta agraria Jacini registrarono non tanto un accorpamento delle terre quanto, semmai, un eccessivo sminuzzamento dei fondi. Lo stesso si può dire, è vero, per altre vallate piemontesi: numerosi erano gli alpigiani che, nel periodo delle nevi, si spingevano sino in Provenza a occuparsi nei lavori agricoli o in vari centri urbani d'oltrefrontiera per fare gli spazzacamini, gli impagliatori di sedie, i vetrai, gli arrotini, i calderai, i bottai, o i venditori ambulanti. Ma l'emigrazione biellese già si distingueva per il suo maggior grado di specializzazione. Soprattutto in Francia, durante il secondo impero, vennero crescendo le "colonie" di biellesi che attendevano all’esecuzione di opere pubbliche mentre altri vi si stabilirono una volta terminato, nel 1871, il traforo del Fréjus. Tagliapietra e muratori emigravano in buon numero da un luogo all’altro, sovente al seguito di appaltatori loro compaesani, che riuscivano ad aggiudicarsi commesse di una certa importanza. Il loro successo era dovuto al forte spirito di coesione che regnava in queste squadre, composte di conoscenti e talora di congiunti stretti, e non solo alle condizioni più vantaggiose che erano in grado di offrire per via dei modesti salari di cui si accontentavano i lavoratori italiani. Con questo sistema gli emigranti biellesi avevano messo radici in vari dipartimenti del sud-est francese e s’erano affacciati poi anche in alcuni territori dell’Europa centrale (tanto che ‘biellese" sarebbe presto diventato sinonimo, per antonomasia, di muratore).


Nella seconda metà dell’ottocento il fenomeno migratorio cominciò a coinvolgere anche quella parte di popolazione che fondava il suo equilibrio sulla combinazione fra lavori campestri e manifattura tessile. A produrre questo mutamento di scenario fu l’introduzione del telaio meccanico e, in via più generale, l'accentramento dei lavoranti in fabbrica. Per numerose famiglie lo sviluppo della produzione negli opifici volle dire la perdita d'una parte del lavoro che prima svolgeva nelle loro case; per altri venne meno la possibilità di un occupazione saltuaria fra la propria abitazione e la fabbrica, a seconda delle stagioni e delle necessità; per altre ancora si pose iI problema d un impiego permanente, e non più fluttuante, delle donne negli opifici, che le avrebbe staccate dai campi e dai lavori domestici. Per tutti la prospettiva di essere costretti, per tirare avanti, a entrare in fabbrica sottoponendosi con assiduità e impegno tanto a un orario stabilito dall’alto, quanto alle cadenze delle macchine, costituiva una sorta di declassamento sociale: nell’opinione comune la condizione di un salariato fisso era infatti assimilata a quella dei braccianti senza terra e degli indigenti. Per non imbattersi nelle "sciagure" di quanti s’erano dovuti rassegnare alla vita di fabbrica, nonostante che i salari operai fossero migliori dei redditi che prima si traevano dal lavoro a domicilio, crebbe il numero di quanti preferivano scappar via, piantar tutto per cercare fortuna in altri Paesi. Non importava che possedessero un pezzo di terra: essa rappresentava qualcosa a mezzo fra la possibilità di autoconsumo e il legame con la comunità d’origine, ma non aveva mai garantito di per sé l’autonomia economica né quella sociale. Il forte senso d'individualità dei tessitori, come quello dei muratori, si fondava piuttosto sul possesso del mestiere. Non a caso, il relatore dell’ inchiesta agraria Francesco Meardi osservava nel 1883 che nelle vallate del Biellese il lavoro dei campi era considerato "un’occupazione secondaria e di poca importanza". Qualche anno più tardi, in un rapporto del 1890 sulla Val Strona, all’indomani dell’avvenuta introduzione del telaio meccanico, si legge che i tessitori a mano preferivano emigrare piuttosto che dedicarsi ai lavori agricoli, giacché essi ritenevano che la "dignità di mestiere" sarebbe stata gravemente compromessa da una simile prospettiva: "I tessitori disoccupati avrebbero fatto benissimo a darsi a lavori campestri, sia per conto proprio che per conto altrui. Ma in quei tempi il tessitore riteneva indecoroso farsi vedere con la zappa fra le mani: chi possedeva un palmo di terra lo faceva dissodare da manovali presi a giornata benché egli, tessitore, avesse nulla a fare". In parecchi casi la decisione di partire fu quindi il risultato di una scelta di vita, di una scelta in cui si rispecchiavano una certa cultura del lavoro e un certo modo di sentire il proprio futuro. Di lavoro nei biellese non ne mancava: I'industria tessile, grazie anche agli effetti del protezionismo doganale, s'era scrollata di dosso il peso della concorrenza straniera sul mercato interno e stava affermandosi su alcune piazze straniere.


La "grande emigrazione" tra la fine dell’ottocento e l’inizio del nuovo secolo (dal 1876 al 1914 emigrarono oltre 73.000 biellesi, pressappoco la metà degli abitanti del 1881) ebbe pertanto origine dalla rottura dei vecchi equilibri comunitari e familiari su cui si era retto per tanto tempo il sistema della tessitura a domicilio, nonché dalla ricerca di soluzioni alternative tali da ripristinare le precedenti condizioni di iniziativa e autonomia individuale. D’altra parte, anche il desiderio di sottrarsi alla morsa dell’autoritarismo e di vivere sotto un regime più liberale giocò una parte importante. Numerosi erano stati infatti i tessitori colpiti o minacciati dalla sequenza di repressioni abbattutesi sulle leghe di resistenza all’indomani dei più violenti scontri sindacali, nel periodo di Crispi e dei "governi della sciabola". E probabilmente I’esperienza maturata da alcuni operai nelle prime fasi dell’industrializzazione portò anche a una crescita delle aspettative, all’elaborazione di un nuovo concetto di sussistenza non più basato su condizioni di pura e semplice sopravvivenza, ma su un paniere "di consumi" un po’ più consistente e differenziato. Sta di fatto che l'emigrazione dei tessitori biellesi ebbe ben pochi punti in comune con quella degli operai lanieri di Schio che emigrarono essenzialmente per sfuggire allo spettro della disoccupazione senza avere alle spalle qualche bene al sole. Dal biellese partirono lavoratori che non appartenevano alla massa del proletarlato, ma che rientravano piuttosto nelle file dei piccoli possidenti e artigiani, proprietari di un minuscolo fazzoletto di terra e detentori allo stesso tempo di particolari capacità tecniche. Essi avevano perciò risorse sufficienti tanto per restare quanto per emigrare. Sotto questo profilo i tessitori non erano da meno dei mastri muratori: avevano anch’essi dietro di sé una casa o un campicello e vantavano delle specifiche competenze. Tutti insieme essi vennero perciò formando una corrente migratoria fatta soprattutto di gente di mestiere. Non solo erano degli artigiani nati e sapevano fare un po’ di tutto com’era costume diffuso fra i montanari, ma molti lavoratori dell’edilizia e dell’industria tessile avevano avuto modo di accrescere il loro bagaglio frequentando i corsi delle scuole tecniche locali istituite fin dai primi anni dopo l’unità d’Italia. Queste singolari caratteristiche consentirono alla maggior pane degli emigranti biellesi di inserirsi con successo nel mercato del lavoro internazionale. Verso la fine del secolo crebbero notevolmente i casi di trasferimento definitivo per più anni rispetto ai tradizionali flussi migratori stagionali o temporanei. Ma non per questo mutò la fisionomia del fenomeno migratorio ne vennero a spezzarsi legami con la comunità d’origine. L’impetuoso sviluppo dell’emigrazione avvenuto tra ottocento e novecento si accompagnò all’offerta di nuove e più qualificate competenze professionali. Se i contadini del Veneto se ne andavano dai loro paesi giurando di non mettervi più piede o maledicendo i "siuri", quelli biellesi non lasciavano dietro di sé terra bruciata, per quanto dura fosse la vita di chi aveva fino allora penato fra la coltura di pochi avari dossi montani e le fatiche non meno pesanti del lavoro ai telai a mano. La prospettiva del ritorno fu una componente fondamentale dell’emigrazione biellese, allo stesso modo della catena di aiuti reciproci stabilitasi tra conterranei al di là delle singole differenze di classe. Questa rete di solidarietà (fra parenti, vicini, compaesani o attraverso i circoli politici) assecondò lo sviluppo nel biellese di una vera e propria "cultura della mobilità" compatibile, o non necessariamente conflittuale, con l’attaccamento alla terra natia. Affermava Quintino Sella nel 1868: "Vi è una popolazione la quale ha per bandiera: dove c'è il lavoro ivi è la patria".


Tuttavia il nomadismo di cui diedero prova tanti biellesi (prima con movimenti stagionali transalpini o verso centri padani dell’economia capitalistica-mercantile, poi con massicci spostamenti verso i grandi mercati transoceanici) non si disgiunse mai dalla devozione alle comunità di provenienza, anche alle frazioni più povere e sperdute delle alte valli. Nei suoi "Frammenti di vita" Riccardo Gualino ricorda, in un rapido schizzo, questa sorta di andirivieni. Riferendosi alla famiglia della sua balia, egli scrive: "Secondo le consuetudini biellesi, il marito muratore emigrava per lavoro in America, il figlio maggiore in Australia o nell’Africa del sud: anime di zingari, spinte dalla necessità del movimento più che dal bisogno del denaro, giravano il mondo durante quasi tutta l’esistenza per fissarsi poi, alla fine, affaticati dal lungo e aspro cammino, nella minuscola frazione natia. Ogni tanto, con i sudati risparmi segnavano le tappe dei ritorni acquistando un podere, rinfrescando una cameretta della casa.". Anche al padre di Gualino, che commerciava in ferramenta, e ai suoi fratelli non erano ignote le peregrinazioni per il mondo; ed egli pure si sarebbe avventurato fuori d’Italia con ben maggiore fortuna: "a 25 anni, nel 1904, titolare di una ditta che si avviava a guadagnare un milione l’anno, sognavo grandi segherie in America; sognavo di sfruttare in Austria-Ungheria importanti foreste per ricavarne, a prezzo più conveniente, le migliaia vagoni di legnami che allora vendevo". In sintonia con questa vocazione alla mobilità e con lo sviluppo di nuove opportunità di lavoro all'estero si moltiplicarono, alle soglie del ventesimo secolo, tragitti e punti d’arrivo dell’emigrazione biellese. Negli Stati Uniti Paterson, West Obokene altri centri del New Jersey videro sorgere in breve tempo delle folte colonie di tessitori biellesi, pratici delle lavorazioni della lana come di quelle della seta e accomunatì da una medesima fede politica, un misto di socialismo e di Iibertarismo anarchico. Piccole comunità biellesi di muratori, scalpellini, boscaioli, fabbri si costituirono, fin dall’ultimo scorcio dell’ottocento, in West Virginia, in Pennsylvania, nel New England e nel Maryland. Nello stesso tempo numerosi paesi dell’America Latina e del continente nero fecero ingresso nella mappa delle correnti migratorie biellesi. Le squadre di edili biellesi non erano un serbatoio di manodopera declassata o di disoccupati agricoli, né prendevano tutto ciò che capitava a tiro. Conoscevano sistemi locali di contrattazione, e talvolta si dovevano scontrare con clausole restrittive, ma sapevano anche come reagire e farvi fronte. Ai grandi lavori pubblici e privati, che ebbero una parte di rilievo nell’industrializzazione di alcuni Paesi europei, o nella realizzazione delle prime infrastrutture moderne in America Latina e in altri continenti (ferrovie, strade, scali portuali, bonifiche, risanamenti urbani, eccetera), artigiani e piccoli impresari biellesi diedero un contributo non soltanto di manodopera ma di idee, di progetti, di competenze professionali. Insomma, dal quadro quanto mai variegato di ruoli, di comportamenti di strategie individuali o collettive, nonché dalla relativa autonomia di rnovimenti e di percorsi degli emigranti biellesi, si trae l’impressione che i fattori propulsivi o le forze d’attrazione esterne abbiano avuto una parte più importante dei fattori espulsivi o di emarginazione. D’altro canto, pur muovendo dalle balze povere e impervie delle vallate montane, la gente del luogo non aveva mai conosciuto la subalternità totale del mondo contadino, una vita fatta interamente non solo di stenti e tribolazioni, ma anche di umiliante subordinazione. Sta di fatto che nel biellese l’emigrazione non servì soltanto da antidoto alla decadenza delle plaghe più arretrate del circondano, ma fornì un apporto non marginale alla mobilizzazione finanziaria, all’espansione di nuove energie e forze produttive, a una ridistribuzione della ricchezza. E se da un lato attutì gli sconvolgimenti provocati dal progressivo esaurimento dei tradizionali equilibri di sussistenza o dall’avanzata del sistema di fabbrica, dall’altro essa concorse a imprimere nuovi elementi di vitalità e dinamismo, a rendere più aperta o comunque meno statica la configurazione della società locale. In questo senso la convivenza fra modernizzazione industriale e conservazione di una diffusa piccola proprietà, fra realtà e tendenze così antitetiche, fu il risultato più tangibile ed emblematico del movimento migratorio anche al di là del primo novecento.

 

articolo pubblicato su STORIA ILLUSTRATA n.346 settembre 1986
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

su www.biellaclub.it per gentile concessione dell'autore
dicembre 2002